Due affermano bisogni. Nessuno, non due identici, ma entrambi hanno di che essere soddisfatti.
Il suono acido è battente, avvolge le traiettorie dei gesti, del ballo e li modula con lo stesso fare sicuro o dinoccolato.
Il ragazzo con la giacca di renna e le clarks si strizza i dredds con la sinistra. Traversa di netto il dancefloor, seguendo la linea delle madide pareti del fondo per poi virare all’altezza del centro verso un gruppo di tre. Ne raggiunge uno da dietro e gli strizza un braccio. Gli altri due seguono l’amico girarsi verso quel tocco. Poi grandi pacche sulle spalle, abbracci, quantità di volte che le labbra dell’uno raccontano parole intervallate da risa nelle orecchie dell’altro. La traccia deep aumenta la quantità dei bassi con un nuovo cambio di disco. Uno dei due diventa più serio, quello senza giacca e senza clarks, e pare inframmezzare il cicaleccio festoso con una frase netta, masticata davanti agli occhi di Mr. Dredds.
“ ma io ho bisogno di droga”
Lo spazio di un instante in più, i dredds strizzati ancora, lui risponde riprendendo il sorriso, le pacche sulla spalla, l’abbraccio scosso da un singulto di ballo.
“arriva il mio amico ali adesso, se aspetti, lo sai”
Una ragazza strizza un angolo della giacca di renna e lui, dredds liberi da una fascia di cotone che ne teneva un po’ insieme, si gira – attimo di stasi – e di nuovo grandi pacche sulla spalla, come si potrebbe convenire con una esilmente rossa in un tubino verde marino, e abbracci, e cicaleccio, tutto ad un tratto netto, che si fa sconveniente. Mentre dredds chiari le dice soave che ali sarebbe passato di lì a poco, il ragazzo di prima, speranzoso, comunica l’ottima notizia ai suoi: che ali sta arrivando.
La pista di Mr. Dredds è fatta di crocicchi di grandi, sconosciuti amici per la pelle.
E la mia pista, bene bene, di cosa è fatta? Adesso le proporzioni di rispetto e stima sono tanto volatili che ogni giorno nasce e muore mille volte senza avere identica sembianza. E io vago appresso ai miei giorni e ai miei istinti, scatenati dagli odori e ancora di più dalle forme. Dell’attaccatura di un polso, della crescita rada dei capelli. Dei guizzi degli occhi quando guardano fuori fuoco e piano riprendono a fissare, delle dita morbide attorno ad una ciocca che si vuole insistentemente piegata nella sua forma meno naturale.
Di nuovo un mix, una traccia jungle che mi pare fuori fase, fuori luogo. Sono via, appoggiata al pilastrino dietro la console. Mi rifugio dentro il luglio passato, con le mandorle non ancora secche e il succo di limone nello zaino: sono esattamente lì, ne ho l’odore tra le mani.
Ascesa lenta, come dromedari, ci leviamo in trance verso il cratere.
Il fuoco impietrito annerisce il blugrigio di tutto il contorno. L’arcipelago al tramonto arretra di fronte alla gravità e vi si lascia avviluppare, scomparso dentro tutto ciò che resta dello sguardo da Stromboli fino al mare fondo. Attorno mare. Dietro mare, in fondo il vulcano più grande e poi la terraferma.
Irrompe l’arancio, l’aria densissima di colore impastato dallo scirocco cattura le ginestre e l’assenzio, i fichi e i cardi secchi piantati nella terra di calcare e argilla.
Dura lo spazio di un battere d’occhi tra est e ovest. Poi l’indaco sospende il mare, le pietre, i burroni di sabbia e le isole fino alla terraferma.
In punta di piedi, l’ultimo atto del giorno: l’aria bruna lascia spazio alla notte.
D’improvviso la fiamma di roccia fusa squarcia il buio neroblu con mille e mille perle di rosso.
Lo zolfo acre intorno: inalare respiri pieni, insieme al sudore e all’erba secca che di notte si mischia all’umido. Come fieno, nebulizzato dagli spruzzi del caldo di mare.
Giù, a Ginostra invece, il vento della sera riesce a stupire la vecchia signora del pianterreno. Innaffia i gerani e ogni volta lascia cadere dell’acqua fuori del vaso, per godersi la frescura e sentire i rivoli sui piedi – nudi nei sandali.
Struscia la gonna accanto alle campanule, entra in casa. Va a prendere un libro e si accoccola sul dondolo di fianco al camino spento e ben pulito e sfoglia qualche pagina.
Il pianto dirotto arriva, scaccia i pensieri felici dell’acqua fresca di sera tra i gerani, le fa gettare a terra piano il corpo.
Si prende i lembi della gonna tra le palme e li odora, li odora e cerca. Anni fa, aveva indossato quel vestito per accompagnare alla nave chi voleva accanto – che partì per andare lontano, da lei, dall’isola, dal loro rifugio.
Sono ridotta ad isolare i minimi termini di tutto quanto sento che viva: ricordi presenti, dubbi vecchi e nuovi amalgamati insieme agli accadimenti veri, che non scambio più ormai con i pensieri – rumorosi come i tamburi della banda del paese di mia madre – che faccio prima di dormire.
Di mattina, di solito aspetto un mucchio di cose. Forse i sogni selvaggi della sera prima, forse sempre troppo poche ore di sonno. Eppure me lo spiego semplicemente con il non volermi arrendere alla noia. Corro, attraverso il giorno. E ci sono giorni che mi costringono ad un riposo quasi assoluto. Sogno senza sogni, concedetemelo.
Ho sempre più bisogno di andare in città grandi e più anonime di quella che abito, non importa da quanto tempo. Incontrare le strade che conducono soltanto sconosciuti è il migliore modo che conosca per sentirmi felice. Non so dove voglio andare, però ho imparato ad andare, a seguire più strade, a perdermi e a trovarmi.
Inciampo spesso in ricordi prepotenti delle notti di Ginostra, qualche volta cado e vi affondo. Come in questa notte di beoni danzanti sotto i quaranta che si accalcano nei vortici di decibel sudati, milanesi, d’inizio inverno nell’interno di una traccia qualsiasi di house.
Giriamo in tondo a noi, e io in particolare distribuisco esterni – esterni di me: vuoto pneumatico dentro – e magari mi diverto anche.
Ho passato il pomeriggio nel sole con il vento. E ora annerisco qui guardando gli altri tutti zitti e frenetici.
Sono un’ottima osservatrice scrittoria, ma non scrivo più; sono stata un’ottima frequentatrice di partiti e ancor meglio di circoli letterario-cultural-artistici, e poi vanto questo qui, quello là, quest’altro ancora, mister no e madam sì. L’unico problema, per davvero, era di quando facevo il poeta: troppo fegato da vendere e pochi che compravano.
Mi manca l’aria, mi piacerebbe uscire. E non aver freddo, camminare e basta senza dovere prendere la macchina.
Sai perché non posso farlo, ti dico, prendere la macchina? Perché mi ripugna cristo pagare benzina verde che è di vecchio modello inquinante, avere la sicurezza che ti frodino sui diritti più intimi, per definizione ultimi, quali la possibilità di respirare catrame (di petrolio) meno possibile. Sto abbastanza marcando stretto, nel senso di poco leggero, insomma. Ritengo che l’insonnia del mio ragazzo dipenda dalla mia vicinanza rumorosa e invadente, per di più quando mi muovo in uno spazio piccolo – allo stesso modo in uno smisurato, ma solo se sotto un certo cono ottico – risento di tutta l’attenzione dei presenti su ogni singola mossa necessaria per articolare vuoi dell’acqua vuoi del tè o per stendere le gambe verso una posizione meno costretta e per ritirarle poi a me quando avessi avuto bisogno di averle accanto o vicino al tronco. Insomma, una gran scena… ve la immaginate, diciamo almeno due volte a settimana in maniera larvatissima e una scena madre ogni due mesi o un cambio di vita ventilato e mai esperito una volta ogni tre…vi direste, ma è per caso un nuovo sistema per vincere un po’ di soldi?
Ni, è una vita. La mia. E voglio bene, voglio continuare a soffrire di emozioni ridondanti, fino a scucire la curva delle dita e spaccarmi dal non-senso a forza di vibrare. Ogni luna nuova voglio accumulare punteggi, sissignore, così che faccia come i gatti: ogni tetto scalato e saltato, un’altra vita, un’altra nuova.
Diana Marrone, 2003