In barca
Quantunque a Catania da otto giorni, mia moglie era tuttavia sotto il gran fascino dello spettacolo del mare, nuovo per lei. A ogni po’, mentre la conducevo attorno per farle osservare chiese, monumenti, negozi, ella mi si attaccava al braccio e, con accento da bambina che vuol essere accontentata, mi sussurrava all’orecchio:
– Andiamo alla Marina?
– Ci siamo stati un’ora fa!
– Che importa? Oh, il mare! Mi sembra di non aver potuto ancora ammirarlo a bastanza. Andiamo?
La sentivo trasalire, sotto braccio, dal godimento anticipato che la prossima vista del mare le avrebbe prodotto. E appena ne scorgeva un lembo a traverso gli archi del viadotto e i rami degli alberi di Villa Pacini, prorompeva in esclamazioni che mi facevano sorridere e già mi sembravano esagerazioni femminili. Per contradirla, allora le dicevo:
– Ecco! È sempre lo stesso: acqua, acqua, acqua!
– Non è vero. Muta di aspetto da un’ora all’altra. Un’ora fa era azzurro; ora, guarda, è cenericcio.
– Effetto della luce.
– Bravo! Grazie della spiegazione!… Ma di qui non si vede bene; andiamo laggiù, su la panchina del Molo.
– Perché non usciamo in barca fuori del porto?
– Ho paura.
– Di che cosa?
– Dell’acqua. Se sopravvenisse una tempesta….
– Le tempeste non scoppiano all’improvviso.
– Se la barca si capovolgesse….
– In che modo? Le barche paion cullate dalle onde allorché il mare è tranquillo come in questo momento.
– Ho paura.
– Bada! Quando saremo andati via, rimpiangerai di non aver gustato il gran piacere di una gita in barca.
– Lo credo! – E soggiungeva: – Se si andasse con uno di quei grossi bastimenti, con un piroscafo, mi sentirei sicura; ma con queste barche che si direbbero tanti gusci di noce! Quante, in fila, là! Non sembrano grossi pesci a fior d’acqua? Si agitano, saltellano come cosa viva…. Oh, su un bastimento, su un piroscafo, sì!
– Hai torto. Nelle tempeste, le barche valgono assai meglio di quei grandi legni. Quando questi stanno per affondare, passeggeri ed equipaggio si salvano, lo sai bene, su le fragili imbarcazioni.Via! Dovresti vincere così sciocca paura.
– Un’altra volta. Ora sta’ zitto; lasciami ammirare.
Di cima al muraglione della panchina del Molo, spalancava i begli occhi neri su la immensa distesa del Jonio scintillante di sole, e non aveva parole, non gesti per esprimere le diverse sensazioni che la invadevano in quel punto. Ed io, osservandola, le invidiavo la gioia della novità di quelle sensazioni che stentavo quasi a comprendere, abituato ormai, sin da quando ero studente, alla vista del mare, quantunque nato, come mia moglie, in cima alle rupi di Troina nell’interno della Sicilia.
La più profonda impressione del nostro viaggio di nozze era stata per Paolina quello spettacolo; non finiva di riparlarne.
– Che cosa ti eri immaginato? – le domandavo, canzonandola un po’.
– Qualcosa di grande, d’immenso… e non sono arrivata alla realtà. Ora più lo guardo, più lo contemplo, e più vi scorgo particolari che da prima mi erano sfuggiti. Tu dici: – Il mare è azzurro come il cielo che vi si riflette. – Non è vero. Il mare è di cento colori, qua azzurro, là turchino, più in là violetto, più in là verde chiaro, verde cupo, giallastro, grigio, bianco…. di cento colori. Se non lo avessi visto, non lo avrei creduto. Ed ora che ho preso un po’ di confidenza con lui… – soggiunse finalmente una mattina.
– Ah! Ti sei decisa!
– Sì, mi sono informata dalla cameriera dell’albergo: potremmo andare in barca fino a Ògnina e tornare, in poche ore, dopo aver fatto colazione colà.
– E se sopraggiungesse una tempesta?
– Non ridere di me!
– E se la barca si capovolgesse?
– Annegheremmo, abbracciati stretti… e addio!
– Sei diventata coraggiosa tutt’a un tratto?
– Avevo paura… per te. Giacché ora dici che non c’è pericolo….
La guardai maravigliato e con un vivissimo impeto di gioia; di sollievo, dovrei dire.
Io credo che il viaggio di nozze sia, spesso, la prima e la più irrimediabile delusione della vita matrimoniale. Il passaggio dall’ideale fantasticato alla realtà è così brusco e così inatteso, che lascia un’orma profonda nell’animo, qualche cosa che forma poi l’infelicità delle due fidenti creature unitesi, forse un po’ sbadatamente, per sempre.
Appunto in quegli otto giorni di vita di albergo, io avevo ricevuto dal contegno di Paolina, se non una cattiva impressione, un senso confuso di… di… non so come esprimermi. Insomma, mi era sembrato ch’ella mancasse di tenerezza, di abbandono, e che il suo spirito fosse più superficiale, più fanciullesco ch’ella non avesse mai lasciato trasparire in un anno di fidanzamento e di quasi quotidiana intimità. In certi momenti, sorprendevo in fondo al mio cuore un sordo e allora inesplicabile rancore contro di lei; e me ne indignavo come di un’ingiustizia verso la bella creatura di diciotto anni che io pretendevo diversa da quella che il sesso e l’età dovevano farla.
Non ero io assai più fanciullo e più leggero di lei, sentendo una specie di gelosia del mare che la invasava con la sua immensità? Non ero ridicolo? – sì, ridicolo – specialmente in quegli ultimi giorni, nell’accompagnarla alla marina con aria annoiata, musona e nel compiacermi di punzecchiarla, di canzonarla, di non nasconderle che la sua insaziabilità cominciava a sembrarmi indegna di lei?
– Avevo paura, per te!
Queste parole intanto erano state un’improvvisa rivelazione, soprattutto per l’accento con cui ella le aveva dette e per l’affettuosissimo sguardo con cui le aveva accompagnate.
Le presi il braccio, e poco dopo eravamo alla Marina in cerca di una barca e di un barcaiuolo che ci portasse a Ògnina, come Paolina aveva progettato.
A farlo apposta, quella mattina non trovavamo barche né barcaiuoli disponibili, forse perché giornata di domenica, forse perché il bel tempo aveva suggerito a parecchi altri la stessa idea, forse perché la più parte dei marinai erano usciti per la pesca.
– Pare impossibile! Proprio oggi! – esclamò Paolina.
All’ultimo un vecchietto, dopo di essersi consultato con due altri vecchi che fumavano tranquillamente in un canto e non si erano neppur degnati di rispondere alla nostra richiesta, venne ad offrirci l’opera sua.
– Basterete a remare voi solo? – gli dissi.
– Montino!
E il gesto e la voce del vecchio rivelarono l’orgoglio offeso da quel dubbio da me espresso.
Il mare non poteva essere più tranquillo. La barca scivolava su la superficie con leggere scossettine. E la riva sfilava di fianco a noi a poca distanza, elevandosi sempre più con nere rocce di lava che già nascondevano la campagna. Grotte si aprivano qua e là; stormi di palombi selvatici sbucavano da esse, di tratto in tratto, involandosi verso terra, mentre gli alcioni ci accompagnavano sfiorando l’acqua con ali spiegate che non producevano nessun lieve fruscìo.
Paolina era in estasi ed io dovevo impedirle di chinarsi ogni volta ch’ella tentava di afferrare qualcuna delle meduse erranti a fior d’acqua, opaline, iridate, simili a funghi cristallini portati via dalla corrente.
Mi maravigliavo ch’ella non sentisse nessun sintomo di mal di mare.
– Sei contenta di questa gita?
– Che delizia!
– Ecco Ògnina, – disse il barcaiolo.
Eravamo appena a metà della nostra colazione, quando il vecchio, che era andato a trovare un suo conoscente, si presentava annunziandoci:
– Bisogna partire sùbito. Si è levato un po’ di vento, il mare si guasta.
Infatti pareva che avesse dei brividi; si increspava, si sollevava con frequenti crestine spumanti.
– Facciamo presto – insisteva il vecchio.
– Ci sarà pericolo? – domandò Paolina.
– No, padrona mia; ma è meglio far presto. Col mare non si sa mai….
Partimmo un po’ sballottati. Paolina mi guardava negli occhi quasi per scrutarmi, e poi guardava il barcaiuolo, che faceva forza coi remi per resistere agli urti crescenti delle ondate. Io cominciavo a impensierirmi per lei. Questa volta certamente il mal di mare l’avrebbe fatta soffrire.
La barca balzava, si avvallava, si rialzava. Sprazzi di spuma arrivavano agli orli di essa.
Tutt’a un colpo il mare diventò più agitato. Il barcaiuolo stentava a farci procedere; ansimava, sudava, guardava attorno, lontano, e scoteva la testa. Certi scogli a fior d’acqua, che io avevo notati nell’andare, non si scorgevano più, sommersi sotto le ondate che si succedevano fitte, accavallandosi, spumeggiando.
– Ah, Madonna Santa!… Ah, sant’Agata benedetta! – brontolava il barcaiuolo.
Non era incoraggiante; ma io mi sforzavo di sorridere a Paolina, e di farle animo con gli sguardi.
– Sangue di…! Corpo di…! – bestemmiava sotto voce il barcaiolo, come più il mare si faceva cattivo.
– Hai paura? – domandai a Paolina.
– No.
– Tienti forte al panchetto.
– Sta’ tranquillo, non occorre.
– Sant’Agata benedetta!… Madonna delle Grazie! – tornava e brontolava il vecchio, che sosteneva male le spinte delle onde e non riusciva più a filar diritto.
– Badate! – urlai.
Al mio grido egli fece uno sforzo, accompagnato da due o tre energiche bestemmie, e così lo scoglio in cui stavamo per investire fu, fortunatamente, evitato. Io lo avevo scorto mentre le ondate, rovesciandosi dall’altra parte, lo avevan lasciato per un istante scoperto. Era uno di quelli a fior d’acqua, pericolosissimo.
– Che cosa è stato? – domandò Paolina.
– Niente. Appoggiate più a sinistra – soggiunsi, rivolto al barcaiuolo.
– Sarebbe peggio – rispose. – Aah! Aah! Aah!
E aiutava con la voce lo sforzo di tutta la persona.
Allora fui stupito di veder Paolina calma, sorridente, e di udirla, prima, canticchiare a mezza voca, poi cantare a voce spiegata, quando gli sbalzi della barca fossero cosa aggradevole. Ora non ricordo più che cosa ella cantasse, ma ho ancora nell’animo l’impressione di quella voce limpida, ferma, che gettava in mezzo al rumore delle onde agitate una dolce melodia del Bellini, o forse piuttosto del Verdi…
Io dovevo farmi violenza per non farle capire che cominciavo a temere qualche pericolo con quel barcaiolo vecchio, mezzo sfinito, che alternava con maggior frequenza invocazioni alla Madonna e a sant’Agata e brutali bestemmie. Eravamo lontani mezzo chilometro dalla punta del Molo; e Paolina, terminata una melodia, aveva impreso a cantarne un’altra più allegra, più squillante, senza mostrar di curarsi della crescente violenza del mare.
La punta del Molo era affollata di gente che pareva seguisse ansiosa con gli occhi la nostra barca lottante contro le onde.
– Vira, vira più al largo! – udii gridare. – Forza! Coraggio!
E quando fummo vicini, un marinaio ci gittò una fune che il vecchio afferrò. Saltato il primo su la banchina si buttava ginocchioni, scoppiando in lagrime, e toccava con la fronte il terreno, ringraziando la Madonna e sant’Agata dell’averlo salvato!
Paolina, appena posto piede a terra, impallidiva improvvisamente e mi si sveniva tra le braccia.
– Hai potuto far questo? Tu!
Mi pareva incredibile.
Ella aveva compreso assai meglio di me il pericolo in cui ci eravamo trovati; e intanto, per non farmi perdere coraggio col mostrarsi atterrita, si era messa a cantare, stando ferma al suo posto.
– Mi sentivo morire dallo spavento di annegare! Come abbia avuto quella forza non lo so neppur io…. Ti volevo tanto bene in quel punto!
– E dopo, ora? – dissi abbracciandola e coprendola di baci.
Fece soltanto un gesto, un rapido indimenticabile gesto.
(A Jolanda)
Luigi Capuana (da “Delitto ideale”, Milano-Roma-Palermo, Remo Sandron Editore)
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