La sua storia in 10 righe, con un particolare accento alla sua infanzia
Adesso sono capo della sezione Sculpture Studies allo Henry Moore Institute e credo davvero di avere il miglior posto di lavoro qui in Europa. L’istituto è un posto incredibile – siamo unicamente motivati dalla ricerca e quindi le difficoltà qui sono benvenute, sono argomenti che potenziano le idee. Sono qui da circa cinque anni. Prima di questo lavoro, ero un’accademica e suppongo questa traiettoria ben si accordi con la mia ossessione di cercare di imparare il più possibile. Anche da bambina ero affascinata dalla ricerca – sono cresciuta in una piccola isola e mi ricordo che esaurii presto la sezione per bambini della mia biblioteca fino ad ottenere un pass speciale per quella degli adulti.
Curatore, manager, insegnante e scrittrice: quale di questi mestieri la rappresenta meglio?
Hhmm, credo nessuno e tutti al tempo stesso! Mi rappresenta di più la condivisione delle idee, verificare le possibilità e l’imparare dagli altri. Quando creo le mostre arrivo senza domande, per me è un processo di produzione di conoscenze che mi fa agire sia come studente che come insegnante – sia come lettrice che come scrittrice.
Cosa pensa delle mostre curate da artisti e perché ‘rischio’ e ‘fallimento’ sono stati due argomenti tra i più importanti nei suoi ultimi libri?
Il fallimento è qualcosa di bellissimo – dobbiamo riappropriarci di questo termine! Sentirsi dire “hai fallito” causa un sentimento terribile, ma è ciò che ognuno di noi ha sperimentato tante volte. Anche se fa male, è positivo – ci rivela dove sono i punti di rottura e ci dice dove possiamo spingere più forte.
Che approccio ha con i colleghi più giovani e quale è quello quando viaggia per curare mostre? Dove si diverte di più?
Produrre mostre è in pratica un gran lavoro di gruppo – fatto di tanti apporti individuali. Spesso le persone con meno esperienza hanno le più grandi aperture mentali e quelli che invece hanno interessi differenti riescono a fare (nuova) luce sui problemi.
Cosa pensa del pubblico un po’ auto-referenziale che si vede alle mostre d’arte contemporanea e cosa fate nella vostra istituzione per allargare il tipo di audience?
Questa settimana il teorico di architettura Mark Cousins ha dato una splendida lezione qui all’Henry Moore Institute sugli ‘incontri’ con le mostre che risponde molto meglio a questa domanda di quanto potrei fare io. Ha parlato di una mostra come della presentazione di opere d’arte da ‘inibite’ ad ‘esibite’. Quello che ho trovato così seminale nel suo modo di esprimersi è il fatto che avesse sottolineato la difficoltà di percepire i lavori d’arte direttamente. Io desidero che il maggior numero possibile di persone veda le mostre ma – e so che questo può sembrare strano – il successo non si misura dalla quantità di gente che varca la soglia dello spazio espositivo, e neanche da quante persone dicono gli sia piaciuta la mostra. Ciò che importa di più è il dialogo con il contenuto, l’interazione con quello che rappresenta, il pensiero su quello che suscita. Preferirei avere piuttosto cinque persone che, entrando, si confrontino con il contenuto che dieci che ci stanno dentro solo un minuto ed escono dicendo ‘ oh quanto è carino’.
Il risultato più importante che ha raggiunto come curatore, dall’altro lato, quello del sé più intimo?
Beh, meglio che altri rispondano a questa domanda, non io! Di cosa sono più orgogliosa? Di dirigere un’istituzione che lavora con un insieme incredibile di persone per creare un programma d’arte che fa davvero la differenza nel mondo.
Gli incontri che fa nella sua giornata lavorativa?
I miei giorni sono pieni di incontri. Molto raramente mi rinchiudo, di solito quando ho una scadenza per la consegna di uno scritto. Dopo due giorni da reclusa inizio a parlare con i mobili – mi piace troppo la compagnia.
Cosa le da la sua città – Leeds – e cosa lei le da?
Leeds è una grande città, dove veramente si testa la cultura. Ha cinque università, un incredibile teatro d’opera; è la casa della Northern School of Contemporary Dance; ha uno dei più interessanti cinema d’arte, l’Hyde Park Picture House, costruito nel 1913; la più importante collezione pubblica di sculture inglesi è ospitata alla Leeds Art Gallery ed i nostri vicini, the Hepworth Wakefield e lo Yorkshire Sculpture Park (a Venezia ha restaurato un giardino pubblico situato alla Riva degli Schiavoni d’accordo con la Municipalità ed ospita, fino al 22 novembre una straordinaria mostra di Ursula von Rydingsvard, ndr) offrono sempre mostre fantastiche; un pub alleva e macella la sua carne, il Reliance; un ristorante francese, Sous Le Nez, ha una lista di vini fantastica. Cosa non potrebbe piacermi!
Una passione culinaria?
Adoro cucinare – infatti una delle mie attività preferite è invitare gli amici e cucinare per loro. E’ un tale piacere – i materiali crudi da trasformare in qualcosa di delizioso da condividere con le persone che ami. Adesso sto aggiustando la ricetta di una zuppa che a casa chiamiamo “zuppa clorofilla”: bastoncini di cannella, spinaci e non molto altro…
E il suo drink preferito?
Zacapa XO (rum) sorseggiato lentamente.
Che musica e libri sono con lei in questo momento (e su quale tavolino o comodino sono appoggiati)?
Rispondo alla vostra intervista mentre sono in viaggio in treno. Quando finisco, frugo nella borsa alla ricerca di A Thief’s Journal di Genet per finirlo. E’ un libro di cui ho recentemente scoperto l’artista Rebecca Horn ha avuto come consiglio di lettura da studente e che poi è rimasto cruciale per lei per molti anni a venire.
In che posto di questo mondo le è capitato di riuscire a vivere lentamente, se le è mai capitato?
Non sono sicura…Suppongo che quando dormo, dormo lentamente!
Un talento che ha, uno che le manca
Sa che una volta giocavo nel team delle Guernsey Girls, una squadra di tennis da tavolo composta di dodicenni, anche più giovani? E che ho sempre desiderato di parlare sei lingue. E di riuscire a fare la verticale.
Cosa ha imparato sin qui dalla vita?
Che è piuttosto fantastica. E difficile.