Devla, devla…: cinque rom celati da un separé leggeranno il futuro ai visitatori di una storica fiera d’arte italiana (Arte Fiera a Bologna, dal 24 al 26 gennaio 2020) che vorranno ‘usare’ la loro chiaroveggenza.
Devla, devla… nasce dal progetto Romanistan, viaggio/opera in cui Luca Vitone ha ripercorso a ritroso il tragitto di emigrazione compiuto dal popolo rom dall’India verso l’Europa. Per Vitone la cultura romanì rappresenta un ideale moderno e transnazionale di popolo, che assume quasi una ‘precognizione’, anche alla luce delle migrazioni di massa che stanno sconvolgendo gli equilibri socio-politici del pianeta. Insieme ad altri tre progetti ‘da vivere e partecipare’ di altrettanti artisti, il suo intervento è curato da Silvia Fanti, storica anima del vecchio Link di Bologna (e dell’attuale Xing).
Era da tempo che volevamo incontrare Luca, un artista italiano giramondo. Lo abbiamo finalmente fatto. Ci è parso un momento ideale conversare con lui ora per permettervi di incontrarlo se sarete a Bologna (una città nodale nelle sue costanti migrazioni) o …per sapere sempre dov’è (leggendo quest’intervista scoprirete come).
La tua vita in poche righe proprio da dove inizia: famiglia, studi e costanti tue migrazioni. Sul tuo sito campeggiano delle coordinate spaziali….Non dimenticare di accennare al grande valore che penso rappresenti Bologna per gli studi, le tue relazioni culturali, affettive e non di meno ….di organizzatore di performance
Nasco a Genova il 18 maggio 1964, lì ho vissuto fino al 1984 poi mi iscrivo al Dams di Bologna nel 1985. Ho vissuto lì fino al 1990, mi sono trasferito a Milano dove ho vissuto 20 anni (come base), tanti i giri per motivi di lavoro – negli anni 90 Colonia e New York soprattutto, negli anni Zero sempre la Germania meno gli Stati Uniti più il resto dell’Europa. Nel 2010 mi sono trasferito a Berlino.
Le coordinate geografiche sul mio sito sono collegate al mio cellulare e informano ogni numero di minuti sulla mia posizione.
Io non sono molto digitale: il sito lo devo a un caro amico bolognese (Luca Ghedini, webmaster) su disegno di Daniele Gasparinetti. Nato una decina d’anni fa, doveva essere un inizio per fare un sito vero e proprio ma è rimasta un’opera in movimento…chissà se si arricchirà di qualche altro contenuto!
Bologna è stata una palestra molto importante per la costruzione di relazioni – dal Link ad Artefiera. Una città a cui mi sembra tu eri affezionato, ma forse Berlino è la tua città prevalente dal punto di vista ‘statistico’ nelle tue migrazioni
Adesso sono di nuovo in una fase di transizione Berlino-Milano per cui non so dirti veramente dove sono, però Bologna è stata molto importante perché negli anni dell’università ho conosciuto alcune persone che sono diventate amici importanti come Daniele Gasparinetti e Silvia Fanti con cui ho collaborato in modo discontinuo in un collettivo del DAMS della seconda metà degli anni 80: quella sì è stata una palestra di organizzazione dal basso e di relazioni, fondamentale per la vita e per il lavoro.
Io poi ho lasciato Bologna ma ho mantenuto – grazie a questi amici e qualche rapporto di lavoro come con la Galleria Neon negli anni 90 – solide basi in città. Da quando apre poi il Link fui invitato da Daniele a pensare a una programmazione per le arti visive e quello è stato un meraviglioso momento di esperienze, un opificio del contemporaneo unico….
L’ho frequentato molto proprio negli anni di cui parli, poi è cambiato ma è sempre stata la migliore meteora italiana in fatto di esperienze notturne crossover (elettronica, arte e teatro: decisamente non un centro sociale come gli altri degli stessi anni in altre città italiane)
La prima serie di performance che ho organizzato è stata nel gennaio 1996, Incursioni, ancora una volta in occasione di Artefiera: progettata in quella settimana proprio per avere un maggior pubblico e per far conoscere lo spazio e le sue attitudini a chi veniva dell’arte con qualcosa che non fosse esibizione pura ma atti che si svolgessero solo di sera, ad un ritmo serrato. Da lì abbiamo poi dato vita a quattro edizioni di Incursioni prima e due edizioni di Hops! dopo e tante altre attività durante l’anno, per quello che mi riguarda legate alle arti visive con elementi di performance che potessero usare tutti gli spazi disponibili del Link durante le ore notturne.
Prima di tutto sei una persona del tuo tempo e a partire da questo lavori come artista e spesso con progetti a lungo termine. Soggetto forse preferito è il paesaggio ‘umano’ ma lavori con mezzi spesso inconsueti per un artista. Due su tutti, la cartografia e il cibo. Entrambi agiti da una visuale non ‘dominante’ e affatto didascalici. La prima opera e quella a cui sei più affezionato?
La prima opera con questi mezzi non è la prima che ho creato ma la prima che ha raggiunto il pubblico essendo stata mostrata.
Si intitolava Beauty Case, del 1983: una scatoletta ricoperta di carte geografiche con tre oggetti – una maniglia all’esterno, una rosa in porcellana e una pietra lavica all’interno.
Un’opera preferita non esiste, forse ci sono opere risultate più interessanti e altre meno.
La prima operazione col cibo è del 1992. Dopo aver lavorato per anni solo con la cartografia e con il suono della musica popolare sono arrivato al cibo pensando che la musica ed il cibo fossero i due elementi della cultura materiale che meglio si prestano ad una relazione tra persone e quindi a comunicare una cultura con le sue convenzioni. Lavoravo sul cibo come tradizione del territorio e lo presentavo come scultura usabile e consumabile.
La musica è spesso fine e mezzo, altri artisti cercano di lavorare nello stesso solco. Pensi la musica sia più strumentale di altri mezzi per ‘indirizzare’ lo spettatore a potenzialità inconsuete e inattese dall’arte visiva che tu consideri sempre molto ‘politica’ (meno decorativa e meno estetica)?
Parlando delle arti visive, ti rispondo di no: la pittura resta il mezzo più utile, più identificabile e più forte perché guardiamo da secoli superfici dipinte e il grande pubblico l’accetta più facilmente.
La musica nel Novecento ha avuto la sua importanza nelle arti, a seconda dei periodi e degli autori naturalmente oltre che di mode, tendenze ed ideologie.
Quando ho iniziato a usare la musica come mezzo nelle mie opere – era il 1989 – uscivamo da un decennio di dominanza della pittura e veniva percepita come un linguaggio relativamente nuovo e di ricerca nelle arti visive. Negli anni 90 è diventata abbastanza comune e verso la fine si arriva a parlare di sound art che a me non è mai interessata (non volevo formalizzare una scultura attraverso un suono, piuttosto trasformare una galleria in cassa armonica).
La musica mi ha sempre appassionato se abbinata a un luogo e alla sua idea. Quindi a una condizione cartografica, che cercavo di spostare su elementi diversi (la musica, il cibo).
A me è sempre piaciuto sperimentare, non dico usare cose nuove (difficile situarsi su un solco di novità assoluta in questo ambito) ma usare qualcosa di inaspettato o alternativo come è stato per l’odore.
Sì concordo: la pittura è l’opera più immediata che ci si aspetta da un artista, ma vorrei concentrarmi sull’atto del dipingere e e dello scolpire.
Tu hai trasformato la pittura in un gesto nuovamente politico oltre che estetico. Difficile dimenticare un’opera che hai creato a partire da un’istanza olfattiva (per l’eternità, alla Biennale di Venezia 2013 dove ci si trovava di fronte ad un monocromo con odore di rabarbaro, dedicato all’Eternit di Casale, che ha emozionato non solo me ma tutte le persone che mi circondavano) ma anche i monocromi di polvere che sono ora a Palazzo Riso (Palermo). Non che le persone vogliano dimenticare ma spesso è molto triste ricordare e ce lo impediamo.
Come sei arrivato alla determinazione di tradurre la pittura e la scultura in memento mori e quindi denuncia sociale?
Come viene accolta dai collezionisti e come trova posto in gallerie?
La scultura olfattiva è una evoluzione di quello che sono state le polveri in pittura. E’ un oggetto non facile se parliamo del mercato e del collezionismo. Anche se per l’eternità ha avuto la fortuna – per me e spero anche per lui! – di essere stata acquista da un collezionista franco-inglese.
Non sono un pittore, come non sono uno sculture puro anche se è più facile fare un discorso non classico dopo il Dadaismo. La pittura con la polvere nasce negli anni Zero, mi è sempre piaciuta la pittura e mi sono sempre confrontato con autori recenti e del passato. Autori e persone che riflettono sull’oggetto da rappresentare attraverso la bi-dimensione.
A un certo punto ho riflettuto su come potessi relazionarmi con quest’oggetto e ho pensato di usare un anti-pigmento, ovvero la polvere che si deposita sulle superfici piane e torna sempre, è persistente per quanto ci impegniamo a rimuoverla. E’ un oggetto che se non rovina, compromette lo statuto della pittura stessa – ogni museo ha un suo Gabinetto di Restauro per asportarla. Questo elemento l’ho eletto a pigmento, ho mischiato acqua polvere ed agglomerante per creare acquerelli, ragionando sull’idea della pittura, del tempo e del luogo (le polveri sono sottilmente diverse, anche se non ci pensiamo, per quanto le cromie si situano sempre tra i grigi e gli ocra). Noi consideriamo la pittura universalmente come testimonianza dell’Occidente che, da Spengler in poi, è in crisi per cui la polvere è forse una metafora della fine del sogno occidentale. Questo era un po’ il mio desiderio.
Dal punto di vista ‘mercantile’, senza togliere nulla ai collezionisti meravigliosi che esistono al mondo senza i quali noi non sopravviveremmo e non porteremmo avanti la nostra ricerca, la polvere come oggetto bidimensionale da appendere a parete ha avuto globalmente molto più successo di tutti gli altri che ho creato nella mia vita negli ultimi 15-20 anni.
Mi ha affascinata il tuo lavoro sulla polvere perché la trovo la sostanza più democratica in natura. Copre, cancella a dispetto di qualsiasi altro intervento. E quindi ci ho letto, nuovamente, un’istanza sociale e politica. La tua posizione come artista denota sempre un messaggio politico indirizzato allo spettatore al di là della mediazione della galleria e dell’istituzione che propone i tuoi lavori.
Cosa pensi di dare alla tua città – considero Berlino anche se sei di nuovo in movimento – e cosa pensi essa ti restituisce come cittadino?
Sicuramente Berlino mi dona emozioni ed esperienze che mi permettono di vivere ed elaborare il mio pensiero. Cosa dono io? Le mie opere, le dedico progetti leggendone la conformazione fisica e quella sociale ed antropologica. Di volta in volta l’ho fatto in altre città.
Infatti stavo pensando di chiederti, se posso, cosa stavi elaborando per Genova dopo la tragedia (un anno e mezzo fa) rappresentata dal crollo di un viadotto autostradale nodale per mettere in comunicazione ponente e levante, il ponte Morandi.
Oltre a spezzare letteralmente la città in due, sono morte 43 persone e i danni sono francamente incalcolabili. Hai già lavorato a Genova abbastanza (soprattutto con una galleria, Pinksummer)
Negli ultimi 30 anni a parte le gallerie private, la prima, Galleria Pinta, tra il 1987 e il 1990, che ha permesso i miei esordi e la seconda, Galleria Pinksummer, dal 2010, solo poche opere non contestuali in alcune mostre collettive. Non ho mai lavorato molto a Genova se prendiamo come esempio una mostra pubblica.
Il Volo del Grifo che ho presentato da Pinksummer era dedicata a Genova, poi la mostra sull’eternit subito dopo la Biennale di Venezia del 2013 e infine con quella sulle polveri, una sorta di wunderkammer dove esse rivestivano tutta la galleria.
Genova…Lo studio Boeri ha presentando un progetto dal titolo Il Parco del Ponte che verrà realizzato sotto il ponte che sta realizzando Piano; mi hanno chiesto di presentare un’opera di cui mi è difficile parlarti non solo perché non è ancora definita, ma perché è qualcosa che mi tocca moltissimo.
Pur non volendo parlarti approfonditamente del progetto posso dire che il mio contributo è pensato sotto forma di bosco composto da 43 alberi di specie diverse, dotati di propria individualità.
Ogni albero è dedicato a una personalità della cultura ligure attraverso l’anagramma del proprio nome. Si tratta sia di chi è nato sia di chi è vissuto o lavorato la maggior parte della propria vita in questa terra. Un tramite tra un passato ed il futuro, con al centro la memoria delle vittime.
Devo maturare un distacco, si tratta di un incidente e non un attentato per cui ho bisogno di pensare a livelli diversi di interpretazione verso ciò che è accaduto. Esso è comunque il risultato di una catena di responsabilità che provengono dalla società in cui ci troviamo immersi.
La musica (non tua) ed il libro che hai adesso con te?
Quando ero più giovane ascoltavo musica anche quando lavoravo, adesso mi è più difficile. Desidero dedicare un tempo proprio alla musica, se no mi distrae e non mi piace usarla come sottofondo o passatempo. Quando riesco a farlo, ascolto classica del secolo scorso, il jazz degli anni 60 (pre e post il free) e musiche eterodosse degli anni 90. Non ho grandi amori da citarti in questo momento.
Sto leggendo le corrispondenze di Morandi (con Longhi in primis e con altri critici della sua epoca) in relazione alla partecipazione alle Biennali nel dopoguerra (Morandi sceglie Morandi: corrispondenza con la Biennale 1947-1962), sulla responsabilità dell’artista di occupare lo spazio della mostra.
E poi una collezione di conversazioni-saggi di Philip Roth, uno dei miei scrittori preferiti, uscito per Einaudi l’anno scorso (Perché scrivere?).
Cosa senti di aver imparato sin qui?
Imparato? Chissà se ho veramente imparato qualcosa…
Il ritratto di copertina di Luca Vitone è realizzato dall’artista Giancarlo Norese.
Vitone sarà a Bologna per Arte Fiera dal 24 al 26 gennaio 2020, leggi il teaser che pubblichiamo dal suo nuovo libro ROMANISTAN pubblicato da Humboldt (Italia), per scoprire anche le date di presentazione dl volume.