Teaser: Come me non c’è nessuno

Capitolo Primo

In alto mare

 

Ancora una volta mi ero svegliato nel cuore della notte.

Non era stata la corrente dell’Atlantico a scuotermi. Da qualche giorno, nonostante le tonnellate di lusso della nave, il mare si faceva sentire; Miami era ancora lontana.

A svegliarmi con la testa piena di buio era stato il mio incubo ricorrente, quello che faccio da quando ho memoria di sognare.

Non fa realmente paura, non so se è corretto chiamarlo incubo, non ci sono zombie, nessuno muore, non provo a fare bungee jumping per attirare l’attenzione di qualcuno e non devo nemmeno ripetere l’esame di maturità. C’è sempre stata solo una porta chiusa e un buio pesto.

Mentre faccio colazione con Rita devo avere l’aspetto stravolto, perché lei con i suoi soliti tempi accelerati, mi dice: «Anton, cos’hai fatto? L’alba sul ponte? Che hai? Chi ti ha stropicciato la faccia? Pensavo fossi andato a letto anche tu all’ultimo giro di amaro».

Lo dice mentre, seduta davanti a me, continua a sbocconcellare con voracità un pezzo di plumcake alla banana, la punta del croissant e le gocce di cioccolato del muffin. Da vent’anni mangia ogni cosa e resta sempre magra, tonica, muscolarmente nervosa, pronta allo scatto dalla frangetta ai piedi. La invidio.

Io non mangio carboidrati da quando siamo partiti e con la faccia scivolata sulla maglietta le rispondo: «Niente, guarda, lascia stare, una di quelle nottatacce…».

«Mi spiace, hai avuto mal di mare? Hai mangiato qualcosa di guasto? Hai qualcosa che non va?»

«Macché, sto benone. Ho fatto un incubo.»

Mi guarda con gli occhi da ragazzina monella, che ridono sempre, e sempre vanno oltre al pensiero successivo, al ritmo successivo, alla prossima occasione.

In lei non c’è traccia dello scampato pericolo che solo qualche mese fa le ha trafitto il cuore. Io invece. Io porto le tracce di questi quarant’anni agiati, felici, tristi e dolorosi che mi hanno fatto amare a cuore aperto, lo stesso cuore che sto cercando di ricucire in questo viaggio e con il quale cullo, da quando sono un bambino, il mio incubo peggiore.

«Sai che penso, Anton? È bello che fai gli incubi, vuol dire che ti stai allenando a superare la paura» mi dice Rita.

Lo so, ha ragione, il solo fatto di sognare mi piazza automaticamente nell’insieme delle persone che, almeno inconsciamente, sanno scaricare le loro ansie. Un backup delle emozioni. Anche io sono un’ottimista come lei, anche se ho dovuto penare per scoprirlo. Lo so che bisogna sforzarsi di vedere il bicchiere mezzo pieno e so anche di essere grato alla vita e alla magia che sa sprigionare perché, se sto facendo questo viaggio con lei, lo devo solo alla mia profonda convinzione che i sogni, anche i più ambiziosi, si possano realizzare. Ed è di sogni e non di incubi che dovrei parlare, danzando sul ponte della nave che entrambi abbiamo preso per riprendere il viaggio dopo un dolore, con la consapevolezza che la nostra amicizia è luminosa e che siamo preziosi l’uno per l’altra.

Ma intanto questa mattina tra lei e me ci sono l’incubo e la mia stanchezza, come se veramente da quarant’anni il mio braccio stesse esercitando una forza sulla maniglia della porta, come se la mia testa fosse scoraggiata dal buio.

«Sono stanco, Rita» le dico «si può davvero sognare per anni la stessa cosa?».

«Ma proprio tu questa domanda! Quanti anni hai sognato di incontrarmi prima che si avverasse…»

Me lo dice senza compiacimento, per accendere il lumicino della mia anima. E ci riesce, perché non trattengo una risata e con il mio rutilante accento napoletano le dico: «Ehhhh… sapessi».

«E allora?»

«Ma tu eri un sogno, questo è in incubo.»

«A volte è proprio dietro gli incubi peggiori che si annidano i sogni più luminosi» dice mentre con il dito raccoglie le ultime briciole del muffin che nel frattempo si è divorata.

«Tu dici… se solo riuscissi ad aprire la porta e a vedere quello che c’è dentro.»

«E vabbè scusami, ma ora mi fai venire la curiosità. Raccontalo un po’ questo incubo, cosa ti succede? Che vedi? Chi è che chiude la porta? Chi spegne la luce?»

«Ma niente Rita, è una cosa banale… Da quando sono piccolo sogno di trovarmi in questa bellissima casa, molto simile alla casa dei miei genitori, quella nella quale vivono ora, non quella di Posillipo, eppure io il sogno lo faccio dai tempi di Posillipo, quindi proprio dall’infanzia.»

«Le leggi dei sogni vanno avanti nel tempo, non ti meravigliare.»

«No, infatti. Insomma, c’è questa casa bellissima addobbata a festa, sento la presenza di mia madre in cucina che sfrigola qualcosa sui fuochi, c’è un profumo delizioso. E io sono sempre bambino e giro per la casa determinato a trovare una stanza. La stanza è chiusa e io provo con tutta la forza ad aprire la porta. Alcune notti non ci riesco, altre invece la porta si apre ma dentro la stanza c’è buio e io non riesco a vedere nulla. Nulla, capisci. Buio pesto. Ed è allora che mi sale l’angoscia perché io devo vedere.»

«Anton, è già tanto che tu sia dentro la stanza. Non tutte le stanze della nostra mente si possono aprire.»

«Lo so Rita, sapessi quante stanze hai aperto tu con la tua musica, stanze che erano serrate e che poco a poco con la tua energia mi hai aiutato ad aprire.»

«Anton, non cominciare. Sai che mi commuovo.»

«È vero, e lo sai… se non ci fossi stata tu.»

«Sono stata la tua ossessione.»

«Sei stata il mio sogno.»

«Ma sai che non mi hai mai raccontato com’è cominciata questa storia? Com’è che io e te abbiamo costruito questa amicizia così solida e intrecciata in questi anni?»

«Perché la tua voce è stata per me come la polverina di Trilly per Peter Pan, non un suono, ma un uncino che mi ha sempre portato all’Isola che non c’è.»

«Sì, questo me lo hai sempre detto, ma io voglio sapere com’è cominciata… quanti anni avevi, che bambino eri… Voglio sapere, sapere, sapere.»

«Ma è una storia lunghissima.»

«E che importanza ha? Mancano ancora giorni al nostro approdo. Dai Anton, andiamo a passeggiare e raccontami di te.»

Dice così, si alza e viene verso di me che non ho ancora fatto colazione e non ho neanche bevuto il caffè. Vorrei dirle che senza il caffè non so neanche come mi chiamo, ma con il suo braccio piccolo si insinua nel mio e fa per sollevarmi e non mi resta che farmi trascinare, appena il tempo di portare con me la tazza con l’americano.

Fuori fa freddo, l’oceano si fa sentire. Ci stringiamo sottobraccio e io, per compiacere la mia fatina, comincio a raccontare la mia favola dall’inizio.

C’era una volta un bambino biondo di quattro anni…

 

 

 

Antonemilio Krogh

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