Alberto, Milano e Barcellona

 

La tua storia in poche righe, con un focus preciso: la/le città che tu oggi chiami casa?

Cosa ti manca di Milano quando sei a Barcellona, e cosa ti manca di Barcellona quando sei a Milano?

Sono cresciuto a Milano, in Porta Garibaldi, studiando al Parini e in Statale, ma ho anche vissuto a lungo a Barcellona, città cui torno di continuo per lavoro.

A Milano non posso rinunciare, perché qui si concentrano gli affetti prediletti e i luoghi più carichi di ricordi – il che a volte è anche un problema. La sua bellezza è schiva, va spesso ricercata in angoli segreti, non è appariscente. Neppure la moda, sulla quale la città si è appiattita negli ultimi decenni, è riuscita a azzerarne l’autenticità.

Di Barcellona non si può dire altro che bene, è una città accogliente, vitale, piena di ragazzi, una città che fa tesoro delle diversità – geografiche, culturali, sociali, sessuali ecc.

Quando sono a Milano mi mancano quell’allegria balneare e gli spazi che Barcellona concede alla creatività – parchi attrezzati, passeggiate panoramiche, panchine, luoghi di aggregazione ecc. Milano, al contrario, è città calvinista, ma nelle pieghe della produttività e del consumo si nascondo inquietudini ben più profonde, come dimostra l’affollata scena culturale.  

 

Quando in un salotto ti chiedono che fai nella vita, quale è il tuo mestiere, rispondi poeta?

No, rispondo che faccio il giornalista, non mi piace attirare l’attenzione. Ma ho sempre pensato al poeta come un falegname o un sarto, che lavora fino all’esaurimento a dettagli cui forse nessuno farà caso.  

 

A che età hai capito che saresti stato un poeta?

Ho incominciato a scrivere al ginnasio ma ho avuto la decenza di non mostrare nulla fino ai diciotto anni, quando ho conosciuto un grande poeta contemporaneo come Maurizio Cucchi. Da quel momento, fortificata dalle letture sistematiche, la consapevolezza del mio lavoro è aumentata, grazie anche al confronto con autori già storicizzati e con i coetanei.

 

Per scrivere di cosa hai bisogno: stanze segrete, bar affollati, luoghi di natura..

Scrivo come lavora un pittore, prendo appunti su quadernetti tascabili (o sul telefonino) nei luoghi più disparati, ma confeziono i testi nel silenzio della mia casa. La passeggiata è parte del lavoro dell’artista. La città, affollata da un’umanità multiforme e dall’azione, è uno dei tratti più importanti della mia poesia, ma certo la natura ha sempre maggiore interesse nella mia ricerca, anche se appare trasfigurata e depistante.

 

Il più importante traguardo, personale o pubblico, raggiunto, ad oggi, come poeta?

Dovrei rispondere i premi e le edizioni di primissimo piano di cui godo, ma preferisco la stima dei lettori. Il pubblico della poesia è un’élite spesso molto preparata.  

 

I poeti almeno in Gran Bretagna hanno fama di bere molto e di non pagare i conti, rispondi a questo cliché?

Conosco i più interessanti poeti inglesi della mia generazione, Jack Underwood e Sam Riviere, e non mi risulta che non paghino il conto. Anche perché lì i poeti vincono premi da 50.000 euro e vengono immediatamente cooptati da università e case editrici. Da noi le cose vanno diversamente con il clientelismo. Confermo però la prima parte della leggenda: bevono sempre con piacere la birra, e anche io.

 

Come si manifesta il tuo impegno per una società migliore, cosa ti sta particolarmente a cuore?

Ho una sensibilità socialista e non sopporto l’idea di far soffrire gli animali, agisco di conseguenza: non ho l’auto, vado in bici, viaggio in treno se posso non prendere l’aereo, sto attento a quello che mangio e a dove spendo i soldi. Cerco, con il mio lavoro, di far circolare le idee.  

 

Una cosa bella capitata di recente, sul piano personale?

In recenti momenti di difficoltà ho constatato di avere vicino persone meravigliose e insostituibili.  

 

Che posto ha la lentezza nella tua vita?

La lentezza è fondamentale, la pratico appena mi è possibile, perché permette di cogliere gli aspetti più importanti dell’esistenza. Con l’affanno della vita contemporanea spesso perdiamo il senso più profondo del piacere, fatto di piccole cose che sfuggono alla percezione di chi è abituato a surrogati culturali di consumo rapido – canzonette, romanzi commerciali, televisione ecc.

 

Una passione culinaria?

Da buon milanese, i risotti. Da quelli chiari al parmigiano, passando per quelli lacustri al persico, fino al classico barolo e porcini. Amo anche la parmigiana di melanzane e la pizza. Dei dolci preferisco quelli nordici.  

 

Un drink o il vino preferito?

Mi piacciono i rossi toscani fermi, piuttosto che altro preferisco la birra chiara a chilometro zero. Dei superalcolici bevo solo gin e whiskey, anche se mi piace ogni tanto scegliere liquori “antichi” come il Braulio, l’Unicum, l’Assenzio e il Brandy di Jerez.  

 

Un talento che hai, uno che ti manca?

Ho molta pazienza e costanza ma non grande manualità.

 

Alberto Pellegatta è stato intervistato da Emina Cevro Vukovic, scrittrice

 

Foto di copertina: F. Maestro

 

Alberto Pellegatta è nato a Milano nel 1978. Vive e lavora tra Milano e Barcellona, in Spagna. Ha pubblicato nel 2017 per Mondadori Ipotesi di Felicità, prima L’ombra della salute nella collezione «Lo Specchio» (2011). Presente nelle antologie I poeti di vent’anni (a cura di Mario Santagostini, Stampa 2000), Nuovissima poesia italiana (a cura di M. Cucchi e A. Riccardi, Mondadori 2004) e Almanacco dello Specchio (Mondadori 2008). È autore della raccolta Mattinata larga. Ha vinto la prima edizione del Premio Biennale Cetonaverde Poesia e il Premio Amici di Milano. Scrive d’arte (L’artista, il poeta, catalogo Skira 2010) e collabora come critico quotidiani e riviste. Dirige la collana «Poesia di ricerca» per Edb Edizioni Milano. Ha fatto parte della giuria del Premio d’arte San Fedele e del Premio Maccagno, concentrando la propria ricerca sui giovani artisti.

 

Per leggere (e comprare) il libro più recente di Alberto: Ipotesi di Felicità

 

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