Viviamo in uno schermo, siamo posizionati al suo interno e dislocati nel suo intorno. Con le serie TV tipo Black Mirror (2011-), la domanda se le nostre vite, o meglio il nostro subconscio, sia un flusso costante di simulazioni, sembra più un noto cliché che una rivelazione illuminata. Ciò nonostante, implora riflessioni morali e filosofiche e consapevolezza audio-visiva il dove noi ci posizioniamo, all’interno di uno schermo inconsapevoli della nostra presenza, invisibili a noi stessi ma visibili ad altri, oppure l’esatto opposto.
In un episodio del podcast ‘Still Processing’ intitolato ‘Fantasie’, i critici cinematografici del New York Times Wesley Morris e Jenna Wortham analizzano l’ossessione degli Oscar a premiare film che creano una storia di tensione razziale crescente. Nel 1994, Forrest Gump è il film che ha rivoluzionato l’uso del CGI (computer generated image) e del Chroma Key inserendo il protagonista, Forrest, in immagini di archivio che lo mettono a fianco e lo fanno interagire con personaggi deceduti o lo piazzano nel teatro dei maggiori momenti della storia politica e culturale americana. Piuttosto che ricostruire quelle scene, Forrest Gump inserisce senza traumi e discontinuità il personaggio in momenti storici. C’è una differenza tra ricostruzione e simulazione, specialmente quando l’azione include e inietta il materiale d’archivio in direzioni che cambiano la nostra percezione di quel preciso momento storico. Morris discute la scena dove Forrest è messo nel campus dove il controverso governatore dell’Alabama, George Wallace, denuncia l’integrazione degli studenti di colore nell’Università del suo stato nell’estate del 1963. In questa sequenza vediamo Vivian Malone, una delle tre nuove studentesse nere, perdere il quaderno mentre entra a scuola. I disegnatori degli effetti speciali fanno in modo che Forrest è nell’inquadratura, prende il quaderno e lo passa a Vivian. Morris conclude ‘ti rendi conto in pezzi del film come questo che il film è su Forrest non su Vivian’. Il giornalista del NYTimes intendeva che Forrest Gump, un americano bianco naïve, gentile, che è ovviamente un personaggio di fiction, diventa la storia. Questa simulazione nei materiali di archivio crea una fantasia molto reale di politiche razziali in America. E, come dice Morris, non posso che ricordare che D.L. Hughley (l’attore americano Darryl Lynn) ripeteva questa stessa frase dal 2018 quando era in tour in diversi talk show per promuovere il suo libro ‘How to Not Get Shot’: “Il posto più pericoloso dove vivere per i neri è nell’immaginazione dei bianchi’’
Non per togliere nulla a quello a cui D.L. si riferiva invece lo userei come leva per pensare alle molte differenti immaginazioni che abitano i nostri sé personali e politici. Quindi diventa importante resistere a vivere nell’immaginazione o nella fantasia di qualcun altro. Con la direzione in cui la simulazione lavora così invisibilmente nelle nostre vite – sui social, sui nostri telefoni, computer e videogiochi – è davvero pericoloso vivere nelle fantasie simulate che abbiamo creato per noi stessi.
Ironicamente e storicamente, Il Ladro di Baghdad (1940), un film che prende ispirazione dalle Notti D’Arabia, e andrà ad influenzare film come Aladino, è stato anche un traguardo tecnico importante nell’industria e nella storia del cinema. Larry Butler ha inventato il primo processo di Chroma Key per gli effetti speciali di questo film e ha ricevuto anche un Oscar nel 1940, che poi rivoluzionerà la produzione di film. Non è una coincidenza che un film con fantasie orientaleggianti sul mondo arabo finisca a diventare la porta per ciò che noi ora comunemente intendiamo come schermo verde ed in seguito CGI. Questa tecnologia non fa altro che rendere possibile restare in un posto mentre si appare in un altro. Ad esempio prendere un paesaggio e circondarsene, oppure inserirsi in una regione remota.
La Giordania ha una lunga relazione con lo schermo verde che specchia la sua concezione come nazione, ed anche cosa gli altri vi hanno proiettato sopra. E’ stata una delle location dove hanno girato il famoso Lawrence of Arabia nel 1962, e nei passati trent’anni dato che la regione continua ad avvolgersi in una spirale di incertezza, si pubblicizza lentamente come un luogo dove girare film storici di Hollywood. Le strade di Talbieh, un campo profughi giordano, diventano le strade irachene viste in Hurt Locker (2008), la tinta arancio del Wadi Rum (letteralmente, la Valle della sabbia rossa leggera, un luogo desertico giordano molto famoso e popolare dove sono state anche trovate rovine romane) avrebbe abbellito i misteri e le meraviglie visive di Star Wars e de I marziani (2015). E un altro momento le strade di Amman sono state anche il sito dove il Palestinian Revolutionary Film Movement era solito produrre film sulla resistenza armata palestinese.
Per loro, queste strade erano una sorta di allungo, anche se di un sapore differente, nella Palestina. In parallelo, lì anche una rivolta nella filmografia palestinese indipendente, specialmente con Annemarie Jacir ed il suo When I saw you (2012), infine il western arabo con il film storico Theeb (2014).
La Giordania ha visto chiunque da Godard a Mat Damon, da Annemarie Jacir a John Stewart camminare attraverso il suo paesaggio e filmarlo. La Giordania è sempre stata lì sullo schermo ma qualche volta anche invisibile all’occhio.
Shuruq Harb (Palestina, 1980-), traduzione dall’inglese a cura di Slow Words