Diego Cibelli, Napoli – mondo

Asse mediano all’andata, i saliscendi tortuosi che sbucano dietro il Bosco di Capodimonte al ritorno: Scampia è un’enclave piena di sole, picchiettata di architetture futuristiche, di edifici brutalisti circondati di amplissimi spazi. 

Una partita a scacchi tra vuoti e pieni, vicoli ciechi, santuari iper-moderni, cemento, acciaio e grandi arterie. A pochi chilometri dal collinoso centro storico di Napoli eppure un altro mondo. 

Ci mancavo dal 2008 quando scrissi un tabloid temporaneo d’architettura su Napoli insieme a Volume magazine (Amsterdam) con l’aiuto di una redazione del pari temporanea. Che finì insieme a molti altri progetti di quella ricerca sulle periferie napoletane in un museo da poco aperto in quegli anni, il Madre.

Ci sono tornata per intervistare un caro amico dei tempi dell’università, Giovanni Zoppoli che ha fatto Scampia l’epicentro della sua rete Mammut dedicata alla pedagogia alternativa e alle biblioteche mobili. 

Stavolta visito Diego Cibelli, avevo conosciuto solo l’anno scorso la sua creazione attraverso un concept meraviglioso di rilettura di alcuni pezzi storici al Museo di Capodimonte. 

Lui è di casa qui, nel senso che ci è nato, non ha mai smesso di produrre in quartiere con un grande atelier (che occupa la metà di un plesso scolastico tuttora funzionante) anche se ha vissuto dieci anni in Germania.

Arrivo subito dopo che le casse di alcune imponenti opere sono partire per New York, dove l’artista espone al The Armory Show, ne ammiro in anteprima le copie di studio. A proposito di Capodimonte, che chiude tra poco per essere profondamente restaurato; il carismatico direttore Sylvain Bellenger gli ha chiesto di disegnare il nuovo bar, arredi compresi.

Quasi 40 gradi fuori, dentro tutto è rarefatto dalla patina del caolino e del quarzo: mi passano un bicchiere d’acqua ghiacciato e intanto scorro le stanze dove vedo al lavoro tante mani e menti operose – tutti giovani i collaboratori di Diego.

La prima cosa che ti raccontano è che qui stanno molto bene. 

Hanno tutti le stesse magliette, un regalo di Giuseppe per il compleanno di Diego che di recente ha esposto in una nota galleria d’arte napoletana con un preavviso di soli due mesi preparando una mostra eccezionale dove poi ci siamo incontrati fisicamente per la prima volta. Il regalo di compleanno è un’eco a quella maratona creativa.

Giuseppe, 22 anni: ‘E’ da un po’ che ci conosciamo, il nostro rapporto lavorativo è stato un crescendo con il tempo, lavoro qui più assiduamente da circa due anni. Sono un po’ più giovane di Diego. Ci siamo conosciuti quando ero alla Real Fabbrica di Capodimonte come suo studente, a 17 anni. Ho fatto esperienza anche del lato creativo di Diego. Quello che lo caratterizza di più è la fluidità del progetto ed il nostro grado di coinvolgimento su tutte le fasi, anche quella creativa. 

Alcune cose non si spiegano, si scorrono; sono indicibili. Pratica e teoria si assimilano bene qui, c’è una pozione strana nell’amalgamare la concettualizzazione, il disegno, la costruzione, il modo con cui ricominciamo daccapo buttando tutto e poi, ovviamente, le regole della ceramica. Un back and forth tra la pratica ed il progetto’.

Come la danza, penso io: in special modo il contact improvisation. Diego Cibelli si espande egualmente tra scultura, arte, ceramica, tessile, design; la sua pratica è talmente ricca di stimoli, rimandi e culture progettuali che rifugge qualsiasi categorizzazione.

L’artista ci spiega che non lavora per ‘mandati’ o per richieste specifiche ma per cicli di produzione che si susseguono. 

Difficilmente inizia un lavoro perché gli è stato chiesto: gli interessa fare ricerca artistica tout court che trova collocazione in mostre specifiche. 

Questo gli permette di produrre anche in tempi brevi: non ‘apre un libro per scriverci sopra’ ma di volta in volta mostra quello a cui è in quel momento. 

Ha un rapporto continuo con la materia e spesso gli basta uno scenario di riferimento o una visita ai luoghi espositivi per preparare una mostra gigantesca e straordinaria senza un solo disegno, come è stato il caso di quella da Alfonso Artiaco. 

Dedicata alle feste napoletane del Settecento, scandite da un protocollo per ogni attività dei giorni dei baccanali: fuochi d’artificio, giochi medievali attorno agli obelischi, i trionfi (banchetti magnifici disegnati da architetti), il dono del cibo al popolo, i carri allegorici. 

Cibelli adora la ricchezza di Napoli, la sua stratificazione: è qualcosa che non ha uguali al mondo (e mentre lo racconta i suoi occhi brillano di una luce profonda). 

‘Quando vengono amici da fuori si chiedono come facciamo a dialogare con questo patrimonio immenso e con questa matrice che temono possa essere soffocante: nel mio caso spiego che non lo è.

Anche quando ero piccolo, alle elementari ero solito fare sempre filone (forca, bigiare: ogni regione italiana ha un modo diverso per dire ‘marinare la scuola’), avevo bisogno di costante contatto con questa bellezza e ricordo che spesso andavo a Port’Alba e mi ficcavo in qualche libreria per leggere tutta la mattina, in realtà guardavo i libri di storia dell’arte’

Levami una curiosità, ma come facevi a fare filone alle elementari?

Ero uno scugnizzo (la parola è intraducibile, da tanti sensi ha: uno su tanti, un ragazzo libero di stare in strada)

Quando sei nato?

Nel 1987

Da Scampia vengono altri amici del mondo dell’arte, ad esempio Eugenio Viola, siete amici?

Sì ci siamo frequentati soprattutto quando lui curava le mostre al museo Madre. La mia missione è fare ricerca artistica, non mi occupo di sociale. 

Non ti occupi neanche di formare giovani?

No, tanti ragazzi mi hanno chiesto di lavorare con me attratti dal mio tipo di ricerca, dal mio modo di trasformare la materia in visione, non ho alcun intento pedagogico. In generale ho pochi obiettivi nella vita: lavorare, ricercare. Se alcuni si aggiungono, come la richiesta di lavorare con me, non li controllo ma ovviamente li accolgo.

La tua vita in poche righe?

Nasco qui, ultimo di quattro figli. Un bambino molto introverso, amavo molto avere vestiti eccentrici e facevo molta difficoltà a distinguere quelli maschili da quelli femminili. A quell’epoca era molto difficile qui camminare abbigliato diversamente. Non pensavo di attirare così tanto l’attenzione per i vestiti che indossavo perché da bambino per me erano giocattoli. 

I miei outfit erano importantissimi almeno per me: mi facevano divertire, davano il tono al giorno. Ci tenevo moltissimo e li preparavo con cura.

Anche adesso sei così.

Sì mi piace ancora pensare ai vestiti come fossero giocattoli. Tornando alla mia infanzia, passavo molto tempo da solo e mi ha permesso di gestire i miei giorni con immensa libertà. E’ magnifico, sai? Tra tutte le cose belle che mi sono successe quest’anno, continuo a pensare che la parte più magnifica è come io sia riuscito a gestire la mia libertà, mi da molta forza. 

Non è facile quando decidi di fare questa professione, le risposte non sono mai immediate e devi saper contare molto su te stesso. Soprattutto quando si è giovani, ma il senso di libertà è la mia forza di andare avanti. 

A scuola non volevo andare, appunto per evitare troppa attenzione su di me. I miei insegnanti non mi hanno capito. I miei primi riferimenti nascono dopo, alle scuole medie: un professore di storia dell’arte molto tosto e severo, mi piaceva il suo modo di provocarmi e mi metteva tanto in discussione. Adoravo la sua complessità, andava dritto alla sostanza, alla verità: e questo mi ha aiutato tantissimo.

Pensi sia venuto a qualche tua mostra, magari in incognito?

L’ho perso di vista. La maggior parte del tempo da ragazzino lo spendevo a leggere libri e non pensavo esistessero Parigi, Londra. La geografia l’ho appresa dopo. Chiedevo dove stavano i quadri che amavo, da lì nasce la geografia per me e negli anni chiedevo ai miei di andarli a vedere.

La mia famiglia, molto molto umile, mi ha seguito tantissimo. Mio padre che veniva dal dopoguerra ha patito molto la fame ma mi ha permesso tutto e sostenuto tanto nei viaggi. Non so se hanno compreso veramente cosa facessi ma sposavano sempre la mia esigenza di guardare con curiosità quello che c’era fuori Napoli. Anche da bambino, ho viaggiato moltissimo.

Non pensavo a diventare un artista eppure andavo a vedere i musei ovunque anche in Italia (Firenze, Roma) per cercare quelle opere che ammiravo nelle mie lunghe mattinate da studente: davanti a quella bellezza non mi sentivo mai piccolo, non avevo mai paura. Mi sentivo sempre come se stessi ballando. Ho cercato di conservare quest’energia in me, ancora oggi. 

Pian piano poi mi sono avvicinato agli studi d’arte: prima il liceo artistico, poi gli studi nella moda, poi l’Accademia e il product design. 

La tua ricerca è a cavallo dell’oggetto funzionale ma non disegni spesso oggetti sic et simpliciter. Perché hai scelto di fare product design? Hai un’attenzione sconfinata per il tessile nel tuo progetto (a parte l’attenzione che hai per quello che indossi): ogni tuo disegno va naturalmente verso l’arredamento (hai presentato pochi pezzi di pura funzione) ma ogni oggetto che posizioni a livello decorativo, potrebbe essere funzionale solo se tu lo decidessi. 

Il mondo dell’interior è affascinante: ti permette di lavorare su vari livelli. 

Sono molto felice di lavorare al bar del Museo di Capodimonte – i lavori inizieranno nel 2023 – perché sarà una grande fucina: non solo la porcellana e la ceramica, anche il tessile, gli arredi e tutto su diverse scale. A me interessa avere uno sguardo di insieme. 

Ad esempio, per la moda: Vivienne Westwood faceva transitare un manifesto politico-sociale attraverso le sue creazioni. Mi interessa la capacità che hanno le parole di trasformarsi in cose: che puoi indossare, che possono rendere la tua silhouette. Ero molto affasciato da questa magia e l’ho sempre cercata: cerco di capire come le cose che noi costruiamo possono parlare. La loro narrazione. 

Ho scelto quindi di studiare design qui a Napoli e non altrove perché non ci sono collegamenti con le industrie e il prodotto può avere una dimensione ‘da manifesto’.

A Berlino, dove ho vissuto per dodici anni, ho studiato Belle Arti.

Come hai trovato la scena artistica di quella città?

Bellissima anche se non mi piaceva il taglio. Ho sempre lavorato con la ricchezza e la cornucopia mentre il taglio artistico teutonico è minimale. 

Quello che mi affascina di Berlino è la sua agenda culturale, la sua ricchezza di eventi e scene musicali. A me piace vivere. Mi piace espormi a tutte le cose che accadono. 

A Berlino sono stato da subito attratto da gallerie interessate alle installazioni; a me piace produrre l’oggetto e tutto il suo contesto, mi piace produrre un ambiente.

Il pattern e l’ambiente dove è immerso: stampi e disegni i tuoi tessuti o hai delle collaborazioni?

Mi interessa, con il tessile come con la porcellana, arrivare al materiale solo dopo che ho lavorato sullo scenario. E per questo mi nutro di referenze, di riferimenti che mi inebriano e poi passo sulla produzione.

Anche per il bar del museo di Capodimonte: a breve fotograferemo tutto il tessile in collezione e comporremo delle carte da parati. 

Nel progetto Meditation in Emergency una produzione nata durante il lockdown, ho lavorato sul tessile creando un ipotetico scenario (della chiusura, della mancanza di contatto) e tutte le stampe sono state riprodotte su stoffe calde, come i plaid, similmente a dei lavori presentati alla Fondazione Morra Greco.

Mi piace essere generoso: non mi definisco scultore o altro. Lavoro nella cultura visiva che è come un’attività motoria, non si ferma mai. Mi piace pensare all’immagine di un ipotetico corridore, come nello sport.

Non entro nei singoli dipartimenti del fare, mi piace abbracciarli tutti. Mi piace pensare al tessuto, al rapporto con la foto ed il video. Celebro tutta la cultura visiva.

Hai fatto design a Napoli, sei andato a fare l’Accademia a Berlino e hai preso possesso di questo posto. Hai sempre pensato fosse il laboratorio giusto per te?

Sì, dal giorno 1. Da quando l’ho visto. Lo conoscevo già e l’ho sempre conservato, lo avevo già quando studiavo a Berlino dove ho sempre fatto di tutto per integrarmi ed avere rapporti significativi ma sapevo che sarei tornato qui.

Hai fatto mostre a Berlino? Potevi produrre anche lì?

Sì, al Bethanien (una kunstraum di Kreutzberg) e potevo produrre anche in città. Ho fatto altre esperienze significative di mostre a Berlino. 

Quando mi hai detto che hai fatto esperienza del vuoto e della solitudine, crescere in essa e non avere paura, penso che lì ti sei temprato per poi gestire facilmente rapporti con musei, gallerie e fondazioni diverse allo stesso tempo. E hai lavorato con gallerie molto importanti – penso ad esempio anche alla Galleria Villanova, che in Italia ha una ricerca molto precisa che abbraccia limited edition, gioiello, ceramica. Un design completamente fuso con l’arte. 

Non hai mai sentito frizioni tra tutti questi mondi? 

Mi sento molto a mio agio perché scelgo sempre di lavorare con persone che hanno un modello umano che a me interessa. 

Non so se è una fortuna od un orientamento insito in me: non ho mai avuto brutte esperienze con tutte le persone che ho incontrato per lavoro. 

Antonella Villanova ha un’umanità straordinaria, lo stesso è Alfonso Artiaco che ha un’estrema passione oltre che essere uno stacanovista.

Voglio lavorare con persone che hanno passione e che sanno quello che fanno, nel mondo dell’arte c’è molto egocentrismo. E’ una cosa che svilisce e che dà inconsistenza, a me piace essere concreto. Potere ed egocentrismo non mi sono mai interessati. Ripeto, non so se si tratti di fortuna o predisposizione ma incontro sempre persone con cui cemento ottime alleanze.

E una persona così illuminata come il direttore di Capodimonte Sylvain Bellenger?

Lui ha fatto veramente la differenza. Lui e l’Avvocato Charre. Hanno fatto la differenza nel senso di restare qui a Napoli. Hanno aperto quella porta che ho sempre desiderato, verso la bellezza o l’infinto. 

I dialoghi, i consigli, cosa guardare, cosa riflettere: Bellenger lo vedo eterno. Le sue scelte serviranno ancora al di là da venire.

L’avvocato Jean Nouvel Charre l’ho conosciuto qui a Napoli: è come me, un bambino che si circonda di cose belle e mi consiglia sempre per il meglio. Quando sono in una fase di creazione gli chiedo sempre qualche referenza: è la biblioteca umana che io cerco. Conosce ogni cosa di me, mi fornisce materiale visivo che subito mi accende. E’ la mia baking power.

Per te la ceramica e la porcellana sono l’esempio principe della geografia umana che rimane centrale per te come parola-mantra: tanto lavoro, tante mani, tanta passione, il radicamento minerale. E infine l’essenza stessa di un materiale, che lega moltissimo. E che ha bisogno di un sacco di energia creativa e materiale per formarsi.

Ami il viaggio e lo spostamento, non è facile viaggiare leggeri con questa scelta stilistica e tecnica. Come concili questi apparenti ossimori?

E’ molto complesso, prendi ad esempio il The Armory Show: movimentare questa installazione non è stato per niente semplice ma si fa. Si fa tutto. 

Non c’è mai veramente un limite alle cose anche perché niente è semplice. 

Le cose complesse alla fine sono anche quelle più semplici perché provengono dall’etica del fare. Se rispetti il lavoro e la sua dimensione, trovi la semplicità in tutto.

Il tuo rapporto con la Real Fabbrica di Capodimonte, secondo me, è stato l’unico posto che potesse davvero accoglierti per il tuo ritorno in città. L’eccellenza che cercavi.

Grazie ad Alessandra Troncone, ho avuto la proposta di applicare a un bando per una mostra ai bagni di Porta Venezia. I miei lavori insieme a quelli del videomaker turco Ali Kazma. Siamo al 2019, in seguito abbiamo applicato anche per il Bando SIAE che abbiamo del pari vinto e abbiamo fatto altri progetti con la Real Fabbrica, sempre guidato da questa curatrice.

Hai sempre ottimi compagni di strada allora!

Assolutamente.

Visto che da bambino sei stato un divoratore di libri, oggi dove trovi il tempo di leggere se lo trovi e cosa leggi?

Quando facevo design del prodotto frequentavo tanto Studi Coloniali e Post Coloniali (un dipartimento dell’Università Orientale di Napoli, dove trovare Iain Chambers e Tiziana Terranova) per le loro tavole rotonde. 

Mi sento sempre esposto ad una continua trasformazione non solo nei libri ma ovunque, non vedo mai che le cose si consumano e, sopratutto non vedo più difficoltà a conciliare lo studio, la lettura, la ricerca e la produzione. Tutto vive insieme magnificamente.

Se vogliamo tentare (per me) una definizione di equilibrio, l’osmosi perfetta di tutte queste partizioni (che ho finalmente raggiunto) per me è questa.

La lettura si combina sempre con la metamorfosi, la restituzione. E tutto vive insieme.

E un libro che hai ora sul comodino?

Grape Fruit di Yoko Ono.

Il tuo rapporto con la musica? Cosa hai ascoltato di recente?

La musica è sempre con me, l’unica cosa che faccio per smaltire il flusso del lavoro a fine giornata è ascoltare musica qui a Scampia, vicino alle Vele: cammino 10 chilometri di notte, mi rilasso e ballo, amo ballare.  Cammino e ballo. Qui è sicuro, puoi permetterti di fare questo di notte, c’è sempre gente in giro.

Cosa hai imparato e capito da questa vita?

Due cose. Fare delle scelte ponderate su me stesso per rimanere libero. Incontrare le persone giuste, che mi hanno dato tanto: questo dona concretezza.

Hai mai pensato a disegnare una tua linea di vestiti?

Non ci ho mai pensato. Sarebbe bello!

E se te lo chiedessero?

Sicuramente direi di sì!


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