Incontro Gianmarco Maraviglia (1974), fotogiornalista milanese, un pomeriggio di maggio nel suo quartiere, Isola. Sono nata un anno dopo, amo il suo stesso quartiere, i suoi stessi club e ho deciso di non considerare più Milano, dove a differenza di lui non sono nata, la mia città prevalente.
Ci rifugiamo al Blu per quest’intervista nel bel mezzo di un temporale primaverile: è un bar che ospita anche un programma radiofonico, si trova all’incrocio di quattro strade che raccontano bene come in 10 anni il quartiere, a ridosso dello Scalo Farini, sia stato stravolto nella sua maglia urbana e sociale. Prima aveva ospitato brandelli incredibili di aggregazione tra cui La Pergola (centro sociale da cui sono passate le sperimentazioni musicali più acclamate) ed un parco con un piccolo centro autogestito dedicato alle arti.
Echo è la sua neonata creatura, un’agenzia di fotogiornalisti con un taglio molto preciso: scova e racconta storie che lasciano una traccia, un’eco, che a sua volta genera altre storie. Ricordando che tutto quel che accade, in qualsiasi continente, ha sia una ragione che conseguenze. E vanno scoperte.
La tua storia in dieci righe?
Nato a Milano da padre beneventano e mamma egiziana, ho fatto studi classici. Università provata in un paio di facoltà diverse senza dare neanche un esame come molti, approdo a studiare fotografia allo IED dove tra l’altro adesso insegno quindi è una bella soddisfazione. Passione della fotografia da sempre, prima la studio e poi la trasformo in lavoro.
Hai vissuto sempre a Milano (a parte viaggiare molto per lavoro)?
Sì, sempre Milano. Adesso faccio un po’ avanti e indietro con la Germania, Friburgo, perché la mia compagna è tedesca.
Consideri Friburgo una tua città?
Sì, forse. Insieme a tante altre in cui sono stato ma che sento meno mie.
Cosa ti ha dato Milano, considerandola come la città più importante della tua vita?
Milano, rispetto a tanti altri, la difendo molto (anche nelle comunicazioni contemporanee, i social network): mi piace, la trovo una perfetta via di mezzo tra un mondo mediterraneo, che adoro, e un minimo (ma minimo) di organizzazione mitteleuropea. Non riuscirei a vivere in una città troppo organizzata, ecco.
Come imprenditore sei appagato qui? E in generale come sta andando?
Non è stata una motivazione imprenditoriale quella che mi ha spinto a fondare l’agenzia, ma lavorare insieme ad altri colleghi, condividere esperienze ed emozioni. Sono l’unico di qui tra i fotografi con cui lavoro. Comunichiamo su skype.
Cosa hai offerto tu a Milano in termini personali e se vuoi in altri termini?
Io penso di essere una persona di cultura media e ho cercato di portare questo in tutti gli ambiti che attraverso – dagli incontri pubblici alle amicizie: cerco di trasfondere quello di cui mi interesso, dare agli altri contenuti stimolanti.
Non hai nessuna critica a Milano…
Non saprei, non mi viene in mente proprio nulla.
Hai un momento particolare che ricordi in maniera appagante, un momento felice?
Ho due figli, quindi di sicuro i momenti felici non sono solo le loro nascite ma la loro attesa, vissuta sempre tra un arrivo e una partenza. Molto belli. La mia compagna è fotografa e photo-editor. Viviamo tutti qui a Milano, i bambini crescono perfettamente bilingue.
Non avete tentazioni di cambiare città?
Le tentazioni sono probabilmente di spostarsi, ma non in Germania. Adoriamo città non facilissime, incasinate – Il Cairo, Bangkok. A Bangkok potremmo farcela, a Il Cairo è difficile. Nostro figlio più piccolo ha pochi mesi e non è il momento giusto lì adesso.
Cosa adori mangiare e bere?
Quando sono all’estero, lo ammetto, mangio esclusivamente cibi di strada nei posti peggiori, perché sono curioso e, da vero amante del cibo, li considero una componente culturale troppo importante del paese che attraverso. Tuttavia, la pasta pomodoro e basilico, giuro, rimane uno dei miei piaceri assoluti. Tant’è che tutti gli anni il 26 dicembre organizzo, con chi rimane a Milano per il Natale (e siamo tanti, anche 35), la serata del “pacchero” (tipo di pasta di Gragnano, ndr).
Ho sempre amato gli ottimi rossi piemontesi ma da un anno sono diventato allergico e li ho sostituiti, scoprendoli, con dei bianchi che ora adoro. Sono tornato da pochi giorni dall’Armenia e dal Nagorno-Karabah (dove è andato a raccontare la storia dei cristiani-siriani di origine armena che scappano dalla guerra in Siria, ndr): ho scoperto la vodka che prima non mi piaceva, lì è popolarissima. Quando arrivi al ristorante hai già un bicchierino sul tavolo che ti aspetta e la lista (scritta in russo) ne ha svariate decine, non lo leggo e allora ordino la più cara che costa circa sette euro a bottiglia. Ora mi fa impazzire, è una bevanda che avevo sottovalutato pesantemente!
Musica e libro preferiti?
Senza dubbio amo la musica elettronica, mi piace andare a ballare. Il mio posto era il Plastic il venerdì, sabato e domenica – volendo, anche il giovedì al Gasoline. Adesso un po’ dove capita, ho amici che organizzano delle serate ed in genere mi fido dei loro inviti. Al Tunnel, ad esempio, forse è uno dei pochi club milanesi rimasti. Il problema è sugli orari. Se viaggi un po’, vedi che negli altri paesi puoi decidere di andare a ballare alle sei del mattino perché a quell’ora suona magari un dj che segui. Qui, anche quando vengono a trovarmi amici stranieri, so che alle 4 chiude tutto. Ci sarebbero anche qui after, ma sono piccoli e nascosti. Devi cercarli, devi sapere dove andare.
Cosa hai imparato dalla vita finora?
Non so se l’ho imparato o se è sempre stato così per me: io prendo tutto con un sorriso. Sono uno che cerca di arrabbiarsi poco (qualcuno smentirà, quando leggerà quest’intervista probabilmente!). Ed è una filosofia, se vuoi, reggae-style.
Un talento che hai e uno che ti manca?
Forse la fotografia, anche se la intendo come giornalismo, quindi se proprio devo incensarmi con un talento, capisco se una storia ha interesse editoriale o meno. Prima che altri la scoprano. Almeno spero!
Vorrei avere la capacità di suonare uno strumento, ma sono assolutamente negato.
Torniamo a Echo. Perché cercate storie e le loro conseguenze? Quali storie e per quali lettori scovate nel mondo, senza ancora pensare a quali editori poi possano interessare?
Bella domanda. Noi cerchiamo di trovare storie che interessano due tipologie di lettori, la prima è noi stessi. La seconda è il lettore tipo che abbiamo in mente, che ovviamente non esiste o è una piccola nicchia, non solo in Italia ma anche all’estero nonostante quel che si dica. Cerchiamo storie che vadano più in profondità, detestiamo il mordi e fuggi, tutti noi (siamo otto fotogiornalisti) abbiamo un progetto personale, in gergo chiamato a lungo termine (che è quasi un’esigenza raccontare). Uno di noi, Valerio Bispuri (Roma) ha documentato per 10 anni la vita nelle carceri sudamericane. Io da oltre un anno documento tutte le religioni straniere che si praticano in Italia. Non era ancora nato il mio secondo figlio, ma dalla nascita di Olivia (la mia prima figlia) che ha i nonni di quattro nazionalità diverse per 3 anni ho viaggiato nei loro paesi di origine per raccontare la multiculturalità a una bambina che cresce con più tradizioni, più culture, più lingue.
Il vostro approccio è people-to-people, ma siete concentrati soprattutto sul ritratto e meno sul contesto.
Siamo appassionati a storie di persone prima di tutto, più che a storie di posti (che vengono fuori attraverso le storie delle persone). Ovviamente siamo tutti molto empatici, per cui il contatto personale è imprescindibile. A livello stilistico, il fotogiornalismo contemporaneo sta andando molto nella direzione del ritratto.
Dell’Italia cosa piace? Vendete un territorio in particolare?
Abbiamo pochissimi lavori fatti qui in Italia. Per noi l’Italia non è un paese diverso solo per il fatto che siamo qui: siamo un’agenzia internazionale (quattro dei nostri fotografi non sono italiani). Se c’è una storia interessante la raccontiamo perché è internazionale. Ci sono, se vuoi, anche dei motivi economici: questo lavoro va fatto pensando di vendere le storie in più di un paese. Se fai una storia tipicamente italiana che interessa solo un giornale italiano, difficilmente riesci…
Che tipo di giornalismo amate leggere, anche fotografico?
Siamo dei voracissimi consumatori d’immagini ed articoli. Ci sono delle eccellenze, purtroppo non italiane (se non, in Italia, l’Internazionale che però riprende pezzi stranieri). In Italia manca qualcosa che ha l’attenzione del New York Times (con Lens), del Time che ha da anni ha una sezione online dedicata al fotogiornalismo internazionale, LightBox. E lo stesso ha fatto il Washington Post, il Boston Globe, il Guardian. E tanti altri editori che hanno capito che c’è una nicchia di persone che è sì affamata d’informazione ma ha anche la cultura visiva per saper decifrare questi linguaggi.
Che speranze abbiamo se, come hai detto, non abbiamo neanche la materia prima…qui in Italia in termini di media all’altezza?
Io non mi fascio la testa, perché lavoro in un mercato globale.
Sei d’accordo nel dire che i settimanali italiani di lifestyle stiano assolvendo, in termini di reportage, a quello che i quotidiani dei grandi gruppi di cui fanno parte, hanno ormai rinunciato?
Sì ma con tutti i limiti dei loro confini, perché sai quali sono i lettori medi di settimanali di lifestyle e spesso ti tocca andare a far vedere dei lavori sapendo già che non li pubblicheranno perché il tema è troppo forte oppure perché…beh avrei anche degli esempi molto sconfortanti ma non te li posso raccontare perché sono coinvolte altre persone.
Per farla breve, a volte porti loro dei soggetti adatti per un femminile (in Italia sono ancora, tra i pochi, quelli che fanno reportage): una storia di donne che spesso troviamo nei nostri viaggi, magari all’interno della macro-storia che stiamo raccontando o all’interno del nostro progetto a lungo termine, da estrapolare e a cui dare un taglio adatto, perché sai che non si butta via nulla nel nostro lavoro. Per quanto la storia sia interessante, ci si sente spesso dire “la protagonista non è figa”: anche se è un personaggio femminile con una storia incredibile da raccontare non è carina, intendo del genere tipico di valletta televisiva.
C’è da dire che non è solo una questione legata al peso dell’inserzionista pubblicitario, alcuni di questi giornali sono allegati ai principali quotidiani italiani. Ci dicono: “tu non puoi forzare determinate storie nelle case dei nostri lettori, perché la gente non sceglie di comprare quest’inserto e quindi devi essere soft.”
Da quanti anni siete aperti? Avete anche progetti no-profit, vi occupate anche di pubblicazioni?
Facciamo tante cose, siamo aperti da un anno e mezzo e mi fa piacere ringraziare soprattutto una persona, Stefano Guindani, un fotografo di moda italiano con una grande agenzia, la SGP: Echo nasce all’interno di SGP e, facendo cose completamente diverse, ha il suo supporto. Ovviamente il cuore del nostro lavoro rimane il fotogiornalismo ma molti di noi insegnano o fanno workshop, mostre (ultimamente lavoriamo con multimedia: video e foto insieme). Un progetto che abbiamo appena finito, insieme con il Comune di Milano e l’Associazione Terza Settimana, oltre che SGP (grazie a Nikon che ci ha dato le macchine fotografiche) è stato un corso molto speciale di fotogiornalismo durato tre mesi e dedicato a 15 senzatetto milanesi (fatto da me ed Aldo Soligno). I nostri allievi stanno raccontando dall’interno la vita dei senzatetto. Tra poco diventerà una mostra al PAC di Milano. Questa galleria civica ha sempre esposto arte di un certo tipo per persone di un certo milieu, per la prima volta quindi riusciamo a portare alcuni temi ed autori in luoghi di solito deputati ad altro.
Avete mai pensato di farvi commissionare citizen journalism?
No, non mi interessa e non mi piace. La trovo una facilissima scorciatoia che i giornali usano per avere materiale gratuito spesso senza nessun tipo di verifica.
Se avessi la certezza che il tuo committente (ad esempio un gruppo di cittadini od un altro gruppo di pressione) vi chiamasse per una causa giusta, lavorereste per questo?
La buona causa è sempre molto relativa: quando è buona per qualcuno, non lo sarà per altri. Nel mio ultimo viaggio i siriani che scappano sono assolutamente pro-Assad e contrari alle posizioni di quello che era inizialmente il Free Syrian Army e che poi si è trasformato nel tempo. Quindi, per loro, i musulmani in generale sono il diavolo in terra ed Assad un Dio. Così non è in generale e io cerco sempre di non prendere una parte quando lavoro.
Cosa vedi per Echo in futuro?
Resterete in Italia dove si vende poca fotografia ad un pubblico di lettori poco sofisticati?
Noi vendiamo più all’estero che in Italia. La locazione fisica dell’agenzia non ha quasi nessuna importanza: si vende tutto online. E’ un periodo di grandissima trasformazione per il mercato editoriale, soprattutto per chi fa fotogiornalismo. Non esiste più il giornale che ti commissiona un lavoro, anche lungo o impegnativo, con capacità di spesa di decine di migliaia di euro a servizio. So anche però che i giornali queste cifre le pagano per foto di gossip. Ma non voglio entrare in questa polemica perché alla fine sono i lettori che decidono. Si potrebbe dire che i lettori si possono educare a un tipo di lettura diversa, ma finché non la dai non potrai mai sapere…
Il ruolo del ritratto e di storie come la vostra è un antidoto all’analfabetismo informativo del lettore? Di ritorno o di avvicinamento ai grandi temi?
Il ritratto è più diretto, è basico, ha meno filtri culturali di un pezzo scritto. Infatti si usa tanto la foto con una grande didascalia che introduce al tema. E’ anche un po’ riduttivo pensare che questa possa essere la funzione del fotogiornalismo. E non facciamone una questione di paese. Il lettore mediamente sgamato le informazioni le trova nonostante la nullità dei maggiori quotidiani del suo paese.
Storie e conseguenze delle vostre storie. La prima con cui avete iniziato?
La prima storia è stata pubblicata pochi giorni dopo che abbiamo aperto. Ero in vacanza in Grecia, avevo lasciato il lavoro in un’altra agenzia e ho deciso di staccare e andare in un paese che conosco bene. Lì, a Thynos, due estati fa è maturata l’idea di aprire Echo. Già che ero in Grecia ho pensato di fare un servizio (nel pieno della crisi economica) da un altro punto di vista. Ho raccontato la storia di chi, lasciata Atene ormai troppo cara, era tornato a vivere sulle isole dove aveva la casa di famiglia per spendere meno ma soprattutto per ritrovare il senso di comunità in un momento drammatico per il paese. Questo servizio è piaciuto molto e pochi giorni dopo il Sette (Corriere della Sera) l’ha pubblicato.