Ian, editore

La tua storia in poche righe, con un focus preciso: la/le città che tu oggi chiami casa

Sono nato e cresciuto a Montreal, a vent’anni mi sono trasferito a Parigi a studiare arte alla Ecole de Beaux arts de Cergy. Prima, avevo cominciato a fare dei collage che mi aiutavano ad esprimere un’identità desiderata, l’opposto di quella che avevo. Teenager gay segreto, mi sentivo frustrato e l’arte mi rendeva in grado di esprimere l’identità desiderata. E Parigi ha avuto un ruolo cruciale nel mio sviluppo – dall’apprezzare la cultura, alla bellezza della città, alla natura sociale della vita quotidiana fino alla modestia: tutto questo ed altro ha lasciato un segno.

Sono cresciuto in un sobborgo ebreo di Montreal, e trovandomi poi a vivere in un contesto totalmente diverso come quello parigino, ho capito che non dovevo per forza essere formattato a seconda della religione, per la mia razza o per la mia nazionalità.

Dopo Parigi, ho fatto un master alla The New School for Social Research a New York e poi ho iniziato a lavorare ad un libro sull’arte e sulla memoria culturale in Israele. Firmai un accordo con la casa editrice Milanese Charta per la pubblicazione della mia tesi, ma fui poi costretto a cancellarlo per via della loro mancanza di trasparenza. Questo incidente mi ha motivato ad aprire una mia casa editrice, per aiutare gli artisti a creare e condividere il loro lavoro grazie a qualcosa di stampato. Non sempre uniamo i puntini tra quel che ci è accaduto in passato ed il presente, io ho invece capito che per gli altri sono diventato la persona che non ero stato per me. Il mio lavoro di editore, e quello da creativo, da allora è stirato tra tutte queste città: mi sento ugualmente a casa a New York, Montreal, Parigi e Tel Aviv.

 

Tu lettore: che strade, che posti e quali bisogni?

Alla fine, sai, non ho molto tempo per leggere. Mi piace leggere al bagno, sulla spiaggia o a letto. Guardo un sacco di documentari. Mi sento sempre sopraffatto dall’enorme quantità di informazioni e spesso cerco di disconnettermi da questo mondo. Ho finito, di recente, di leggere un gran libro di un’autrice nigeriana, Americanah, romanzo di Chimamanda Ngozi Adichie che ho amato molto. Sia la fiction che la non-fiction mi aiutano molto a prendermi una vacanza dalla mia mente. Una volta Sharon Stone disse che la sua mente era come un cattivo quartiere, e che non doveva addentrarvisi da sola. Mi sembra, talvolta, di provare la stessa cosa.

  

Il mondo dell’editoria oggi si espande lentamente e furiosamente allo stesso tempo – spesso esiste in una pluralità di media (libri istantanei, pdf online con sezioni multimediali, anticipazioni) e questo sembra aver influito sui modi in cui hai sviluppato la tua attività. Con un background da artista, ci spieghi perché hai scelto di diffondere prodotti culturali così particolari e decisamente poco mainstream?

Fino a questo punto non ho pensato ‘commercialmente’ perché non sono mai stato interessato a questo. Siamo circondati da così tante cose che non abbiamo davvero bisogno di niente e io, in particolare, non sono interessato a fare cose solo per far soldi. Immagino sia più importante per me sentire di aver contribuito a fare qualcosa di valore per il mondo. Penso sempre di più che ciò che si definisce ‘popolare’ e ‘mainstream’ è tale perché le persone ci si connettono. E questa idea è sempre più interessante, per me, da indagare.

Non sarei capace di fare sforzi per qualcosa che non penso sia importante o utile. E, per quanto riguarda l’attenzione al digitale ed al video, mi rendo sempre più conto che è cambiato, o sta cambiando, il modo in cui leggiamo. Chiunque sia interessato a comunicare con altri deve prestare attenzione a questi pattern comportamentali. Per me i libri digitali sono come schermi interattivi che attraverso il video ed i link annullano le distanze tra TV, film e stampa. E sono uno strumento che riesce a confrontarsi con il diluvio di informazioni che caratterizza il nostro mondo. Per esempio, sono assai interessato alla situazione dei rifugiati in Israele, dove oltre 70.000 migranti africani hanno trovato rifugio. Quando leggo le informazioni online su questo argomento, sono molto frammentate, e mi rendo conto che con una pubblicazione digitale, posso tenere insieme tutte le fonti in un solo contenitore, sintetizzando quel che già esiste sull’argomento oltre che includere la mia prospettiva su una questione così complessa.

 

Come editore, preferisci lavorare su commissioni o sul marginale, l’inesplorato e l’inaspettato? 

Sono sempre attratto, personalmente, dal marginale, dall’inesplorato e dall’inaspettato. Sono uno estremo – adoro il dramma, l’intensità ed anche il pericolo, entro certi limiti. Rispetto a quello che pubblico, non c’è distinzione tra le cose che commissiono e quelle che scopro, eccetto che la commissione richiede fondi, e spesso io, giovane imprenditore, non ho sempre la forza lavoro ed economica richieste per vedere le cose che mi piacciono venire al mondo.

 

Oltre a progettare e pubblicare libri e rendere le persone un po’ più consce del potere della parola scritta, che posto ha la creatività in generale e la scrittura creativa nella vita domestica e privata?

Erano molto importanti, nell’adolescenza. Ora creatività e scrittura creativa occupano un posto meno importante. Adolescente gay, strano, tormentato dall’acne ed immerso in una comunità omofoba, ero muto ed invisibile. Oltre la coltre di un’apparenza nella media, opaca, tuttavia covavo una tempesta selvaggia di emozioni. Mi ricordo ancora di un giorno, sedevo nel mio quartiere periferico di Montreal, mi tormentavo circa la mia impotenza politica. Mi sono messo a tagliare con le forbici le foto che trovavo sulle riviste di moda di mia sorella insieme a foto mie, ricomponendo i frammenti in nuovi collage. I collage raccontavano di tutte le cose proibite che desideravo, e che freneticamente nascondevo sotto il mio letto ogni volta che qualcuno bussava alla porta. Con quelle composizioni potevo diventare qualunque persona. Saltavo sopra una passerella urlando con la testa decapitata di Kate Moss che pendeva dal mio braccio mentre una pletora di facce famose guardava con invidia. In un altro collage ero mezzo nudo, urlante, con gambe di donna e un grande gioiello dalle forme falliche incollato sul cavallo dei pantaloni. Un fiume di gambe senza corpo si affrettava attorno a me mentre una star di un film degli anni 40 guardava timidamente nella mia direzione.

Con i collage, ero in grado di trasformare me stesso. Non diventavo la mia fantasia, era qualcosa che bramavo esprimere. L’espressione artistica mi offriva uno spazio libero dalla cooptazione, dove potevo controllare chi volevo essere e come volevo essere visto. Attraverso l’articolazione di una vita e di un’identità che desideravo, maturai la fiducia che poi mi ha trasformato da un’ombra passiva di una persona ad un agente attivo. Ho usato l’arte per lasciare esplodere le convenzioni sociali perché non avevo altri mezzi a mia disposizione.

Quest’esperienza mi ha aperto gli occhi sulla funzione politica delle opere, in una maniera tale che ha per sempre cambiato il modo con cui guardo all’arte ora. L’espressione artistica rende le persone prive di diritti politici in grado di trasformare le loro identità. Quelli senza capacità politiche non possono mai essere completamente zittiti. L’oppressione e la povertà possono ridurre le nostre possibilità di essere visti e sentiti, ma le persone trovano sempre il modo di articolare le loro fantasie e, quando lo fanno, piantano un seme che ha implicazioni potentissime.

 

Sembra che tu preferisca pubblicare libri di autori israeliani e dichiari sin da subito che i tuoi libri sono “orientati politicamente”. In che modo? Come consideri oggi il Sionismo, un argomento che hai anche esplorato come scrittore qualche tempo fa? 

Prima di tutto, sono stato allevato in un quartiere e in un gruppo molto ebreo di Montreal. Andando in una scuola ebraica, Israele è sempre stato una grande fetta della nostra educazione, ed anche della mia identità. Crescendo, ho cominciato a passare sempre più tempo lì e ho capito che lo sviluppo del paese in qualche modo rifletteva il mio. Adolescente gay, usavo i collage e la creazione di immagini per combattere la mia ‘invisibilità’ e come mezzo per costruire la mia identità.

Una delle cose che mi connette maggiormente con Israele è il ruolo similare che l’arte e le immagini desiderate giocano nella creazione dei paesi. Quando Theodore Herzl iniziò con i suoi tentativi di parlare ai sordi leader politici, si sedette e scrisse un libro di utopia sociale, dove in molte maniere prefigurava ed influenzava la creazione di Tel-Aviv. Era interessante per me vedere lo stesso mio micro-processo specchiarsi in quello macro della creazione di una nazione, specialmente laddove l’estetica influenzava un processo, più esteso, di essenza. E’ questo che lega me e cosa ci vedo nel Sionismo. Non sono un sionista nel senso che non penso che le pretese ebree in Israele debbano in alcun modo surclassare quelle palestinesi. Tutti dovremmo avere il diritto ai luoghi dove siamo nati e non accetto certo l’idea che ognuno possegga una terra assegnata. Se deve esserci qualcosa che posso sottoscrivere, certamente allora è l’idea proto-sionista, quella alle origini del movimento. I primi pensatori sionisti erano degli outsider che sognavano di una rinascita dove si poteva assumere un’identità desiderata, opposta a quella ereditata. Se fosse stata seguita fino alla sua fine naturale, questa idea avrebbe significato che ogni individuo avrebbe avuto il diritto di assumere quell’identità che preferiva – e ciò contrasta patentemente con ciò che poi il Sionismo diventò, dove chiunque veniva costretto ad adottare certe norme, dove gli arabi venivano denigrate e cacciati, etc. Ci sono un sacco di cose fantastiche e davvero piene di ispirazione su Israele, ma c’è anche un sacco di ingiustizia e molta inumanità e – ironicamente – penso tutto questo mi motivi assai ad essere in questo paese. Per cercare di fare una piccola differenza – in ogni modo possibile.

 

Sei anche un artista, e se sì, in che modo? 

Mi è praticamente impossibile, dovendo portare avanti la casa editrice, continuare i miei progetti artistici, ma lo vedo come qualcosa di temporaneo. Sto lavorando molto duramente per costruire una piattaforma e nel futuro vedremo in che direzioni creative sarò in grado di usarla.

Quando non lavoro, mi piace divertirmi, bere e ballare e sentirmi leggero e libero di andare in giro con gli amici, viaggiare, etc. Penso che in un certo senso il mio lavoro mi metta in situazioni molto solitarie, e quando non lavoro cerco quindi altro.

 

Oltre a vendere libri da collezione (od edizioni limitate) sei anche un collezionista?

Lo sono stato. Mi ricordo, da piccolo, che andavo con mio padre a comprare francobolli ogni fine settimana a Montreal. Quando la sera i miei uscivano e veniva la mia babysitter, mi ricordo che guardavamo le telenovele in tv ed io mi divertivo a tirarli fuori e guardarli. Crescendo come gay, e realizzando che non avrei forse potuto avere figli, ho cominciato a nutrire un’ossessione per concetti quali l’immortalità e l’eredità. L’atto del collezionare mi sembra un tentativo di strappare gli oggetti dall’obsolescenza, dall’essere dimenticati: un modo per tenerli in vita per sempre. Abbiamo imparato ormai che nulla è per sempre e parte della mia educazione spirituale cerca di andare oltre tutto questo, non legandosi a nulla in particolare. E peraltro, non sono molto molto attaccato a cose materiali. Sono stato poco tempo fa allo Chateau Mormant a Los Angeles (un leggendario hotel di lusso sul Sunset Boulevard) ed un amico mi faceva notare quanto fossero belli i vetri del bagno. Tanto più lui ricavava un così intenso piacere a guardarli, tanto meno, realizzavo, io ero interessato alle cose materiali.

 

Quanto è difficile iniziare, e portare avanti, una così intensa attività come quella con Sternthal Books?

Molto difficile, perché io porto avanti la società da solo, sebbene collabori costantemente con un gruppo assai esteso di artisti e designer. E’ un lavoro d’amore per me e vedo le cose a lungo termine. Sto costruendo qualcosa che duri, ricca in scopo e significato per me, e di speranza per altre comunità del pari.

 

Gli incontri che fai normalmente, quando lavori?

Oltre ad essere abusato dagli artisti, sono la maggior parte del tempo al computer, quindi dialogo con artisti, progettando libri, stampandoli, facendo video, editando, facendo foto, etc.

 

Il più importante traguardo raggiunto, ad oggi, come editore ed artista? 

Deve ancora venire. Sono tuttavia molto orgoglioso di un video che ho fatto recentemente per Turning the Tables, uno studio di moda di Tel-Aviv che aiuta le donne che cercano di abbandonare la prostituzione attraverso lavori di cucito, cibo, terapia ed altre attività motivazionali. E’ stato un grande onore per me incontrare queste donne coraggiose. Abbiamo girato un video di moda con i designer che vestivano le loro creazioni e devo dire che è stato un vero traguardo aver potuto vedere queste bellissime e talentuose signore gongolare, sentendosi appunto fiere e bellissime.

 

Una cosa bella capitata di recente, sul piano personale? 

Ho incontrato un uomo davvero eccezionale e abbiamo condiviso cose speciali. Non è durata, ma penso ancora a lui e accarezzo il tempo speso insieme.


Una passione culinaria?

Qualcuno che cucini per me o ordinare da mangiare. E mi piace anche interrompere gli amici che cucinano per aggiungere cose strane come coca cola o ketchup in quello che stanno preparando.


Un drink o il vino preferito?
 

Non conosco veramente nulla del vino – dammi una bottiglia di quattro dollari e sono contento, basta che sia rosso.

 

Come riesci a vivere lentamente, se ci riesci, in una città come la tua?

Quando sono a New York, mi piace fare un pedicure. Sedere nella sedia che ti massaggia e leggere riviste spazzatura. A Tel Aviv mi piace correre sulla spiaggia. A Montreal mi piace molto andare alle Laurentians (22.000 kmq di paesaggio montano), sciare, camminare con le racchette da neve e in estate nuotare e passeggiare sulle montagne.

 

Un talento che hai, uno che ti manca?

Sono molto bravo a mettermi al posto degli altri, a guardare la vita attraverso altri occhi. Mi piacerebbe essere una pop-star, cantare ballare, etc.


Cosa hai imparato, sin qui, dalla vita?

Ho imparato così tante cose che è così difficile ridurle in una lezione per qualcun altro. Più di tutto, credo di aver imparato a rilassarmi, a non fare tutto lacrime e sangue, a godere anche delle piccole cose. Ho anche imparato che non posso controllare tutto, che devo in qualche modo lasciare qualcosa al fato.

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