Judicael, scrittore apolide ed ex cestista si racconta. Tra passione, design e lotte.
Un’amica mi invita ad un compleanno e scopro Teranga, una parola africana che vuol dire accoglienza (in senegalese): traduce l’atto di domandare ad un ospite che arriva nella tua casa con “quanto resti” piuttosto che con “quando vai via”.
Teranga oltre che accoglienza è un worldwide pub, è il primo caffè letterario africano di Napoli (forse uno dei pochi in Europa, se ne esistono altri!) ma, in circa 130 metri quadri, è prima di tutto un modello di business e d’integrazione, una fucina di artisti oltre che un jazz&world music club, un palco per reading, un ottimo ed economicissimo ristorante etnico, un luogo espositivo curiosamente arredato e diviso in sale che hanno i nomi dei continenti (Asia, Oceania, America, Europa e Africa) e che ospitano soprattutto fotografia contemporanea (adesso una mostra di un medico, Viviana Rasulo, che ha creato dei light-box che narrano di performance di un corpo bianco e uno nero: un gioco di scacchi tra petali, libri e corpi).
Dietro Teranga c’è un ironico e profondo trentottenne del Burkina Faso, ex cestista, mille lavori (idraulico, domestico, muratore), in Italia, sempre a Napoli, da 15 anni. Ora è un manager e scrittore (sua un’associazione e casa editrice, Macchia di Colore con cui ha pubblicato se’ stesso ed altri autori). Si chiama Judicael e si pronuncia come si legge, senza francesismi.
Parte dell’intellighenzia del suo paese (ha studiato lì e parla molte lingue, quando scrive libri qui, lo fa in Italiano e ha uno stile travolgente e scuro, fatto di passioni ardenti di corpi e di menti) – suo padre psichiatra per l’OMS e docente universitario, sua madre una banker – ha già tre figli: una di dieci anni, Sabrina Caroline, che vive a Napoli e due gemelle di circa cinque anni che ha avuto da una madre prestatrice africana per avere dei figli meno problematici di quanto fosse con la ex compagna (verranno a vivere in Italia quando troverà una moglie: lavora 18 ore al giorno e quindi non ha la possibilità di allevarle a modo).
“Ho avuto un’educazione contrastante: mio padre crede nella potenza del cervello, mia madre è cattolica (Judicael è, infatti, un nome cattolico). Per tutta la vita si è alzata alle 4 del mattino per andare a messa e per 35 anni, dopo, andava a lavorare in banca: ora è in pensione e si gode le nipotine, è ringiovanita.
Lei m’insegnava a porgere un’altra guancia a chi mi schiaffeggiava e mio padre a dare, invece, un cazzotto. Ho un fratello ed una sorella (lui lavora al ministero della sanità, lei in aeroporto). Pensano che sia pazzo ad essermene andato dal mio paese (per un periodo ha vissuto anche a Dakar, con la famiglia, ndr).
Come uomo, attualmente, ho rinunciato all’amore, mi rincresce anche dirlo: quelli che mi circondano si innamorano sempre di me ma è il modo di innamorarsi qui che rappresenta la difficoltà, vengo da un paese dove si può chiamare mamma anche tre persone, insomma non riesco a fare i conti con l’esclusività e con la menzogna. Sebbene sia possessivo in quanto africano, ambisco ad una relazione amorosa in cui ci sia totale complicità e condivisione, anche di altre storie.”
“Napoli è un posto per immigrazione di passaggio, dove i migranti arrivano per passare presto altrove: Teranga è un luogo di ritrovo per tutti, non solo stranieri (ho visto magistrati, polizia e anche tanti professionisti tra i clienti più affezionati, non solo artisti o creativi, ndr) ed è soprattutto un’impresa sociale, messa su con l’aiuto del Comune, ed è uno stage di produzione artistica e musicale. “
“Nessun intellettuale africano viene in Italia, va ad esempio in Francia: l’immigrazione qui è di origine prettamente operaia. Laddove in Francia ci sono 15 milioni di ragazzi come me che parlano otto lingue, avrei avuto una competizione enorme. Quindi ho deciso di fermarmi qui, anche se Napoli è una città piatta, quasi spenta che però mi offre un sacco di opportunità, anche nell’import-export (siccome Napoli è spenta e triste, abbiamo bisogno di portare un po’ della nostra cultura).
Lì dove voi ci spogliate facendo vedere immagini terribili dell’Africa che non ci corrispondono, noi resistiamo con il sorriso. Pensiamo che riuscire a far capire che un abbraccio può valere di più di un anello d’oro, un telefonino, un televisore, possa contribuire a creare un mondo migliore dove non ci sarebbe bisogno di chiudere le porte a chiave. Forse è un po’ ambizioso, o complesso, ma ci provo. Tutti i giorni.”
“Ho imparato l’italiano qui, da autodidatta. Leggo tanto in inglese e a volte mi viene di scrivere in inglese (il suo italiano parlato ha il sapore del francese di Sciences Po e a sprazzi del napoletano, ndr), ma ho deciso di scrivere in Italiano e soprattutto di creare la mia casa editrice perché voglio essere libero di parlare male di Berlusconi, cosa non possibile altrimenti. Il mio primo libro, Dunia, sono orgoglioso di dire che ha venduto 3000 copie ed ora è in ristampa (ovviamente ne ho prenotato una copia: l’ho sfogliato a cena ed è avvincente: come la sua pagina facebook, Judicael affronta i temi della libertà individuale, dell’amore e del razzismo da una prospettiva densissima e diretta: ha scelto la via del pugno e non del porgi l’altra guancia! Ndr).”
“Solo rendendoci conto di quanto valiamo, possiamo migliorare. E Teranga è una specie di famiglia, dove vengono a trovarci anche tanti amici famosi per presentazioni e dibattiti, come Erri de Luca e tanti altri scrittori.”
E’ facile incontrarlo a passare dischi dopo mezzanotte, un po’ nell’ombra dietro il bancone della sua creatura.
Teranga è aperto sei giorni su sette, tranne il lunedì, in un vicoletto (Costantinopoli) giusto di fronte una delle piazze simbolo del “fu” rinascimento napoletano, ora tenue ricordo: Piazza Bellini (a pochi passi da Portalba e dalle piazze Dante e Gesù).
Cucina africana, creola, australiana e srilankese si alternano, un piatto costa dai cinque agli otto euro e nelle domeniche dedicate alle famiglie i bambini – di qualsiasi nazionalità e censo – non pagano.
Si cena fino a mezzanotte e poi danze sfrenate fino a che ce n’è. Teranga ospita nuove sonorità jazz il venerdì, world music il sabato: è il posto migliore per incontrare musicisti che saranno il must di domani, non solo stranieri o non solo italiani.
“I concerti vanno dalle 10.30 a mezzanotte, dopo parte il djset. Spesso case discografiche (come la romana Ginuwine) vengono a sentire gli artisti giovani che produciamo, che però devono alternarsi per forza ad artisti conosciuti e già famosi. L’idea del Teranga è quella di un bar intellettuale e performativo come quelli visitati da Pasolini negli anni 70”.
Il bar del Teranga offre tutti i cocktail tradizionali e a ottimo mercato, più un’ampia selezione di vini, fino ai più costosi spumanti.
“Abbiamo un motto qui: se vuoi bene a qualcuno portalo al Teranga. Non abbiamo fatto molta pubblicità, solo passaparola. E accogliamo tutti, sebbene non arrivino, per selezione naturale, persone troppo diverse da noi.”
Quello che ho adorato sono gli analcolici africani ed il tè. Ho bevuto dell’ottimo bissap, succo molto zuccherino e dissetante ottenuto dalla bollitura di petali d’ibiscus; ho gustato un succo ricavato dalle radici di zenzero pressato e ho mangiato del riso con sugo di Mafè (salsa di arachidi) originario dell’Africa occidentale. Una mia amica ha preso il sugo rosso (riso condito con un sugo di peperoni e melenzane), molto profumato.
Servono normalmente Thieboudiene (Senegal), Fufu (Ghana), Attieke (Costa D’Avorio), alcune ricette di carne e di pesce e alcuni innesti con la cucina caraibica (dal platano fritto alla patata dolce). Nel week end mangiano al Teranga dalle 50 alle 70 persone: accanto al Bissap i clienti chiedono anche buoni rossi o il Ferrari. Ecco perché è un worldwide pub, nelle parole dello scrittore apolide Judicael (i camerieri che mi hanno servita hanno sbagliato a fare il conto, da 26 a 17 euro, per un problema d’addizione! Speriamo non accada tanto spesso dato che i prezzi sono già bassissimi!).
Al Teranga fanno sentire un re anche un sans papier o una famiglia numerosa: con i concerti di musica dal vivo il prezzo d’ingresso non supera i 2.50 euro, già con 5 è possibile mangiare un piatto unico del giorno (riso con sugo) e da ottobre aprirà, con la stessa filosofia anche a pranzo. Hanno questi prezzi perché prima di tutto non vogliono chiudere la porta ai migranti e agli studenti, insomma alle persone con basso reddito, consentendo loro avere un buon pasto ed ascoltare buona musica.
“Mi piace sperimentare anche nella ristorazione. Siamo aperti da solo otto mesi, questo posto l’abbiamo costruito quasi daccapo e arredato scegliendo uno a uno i pezzi (una vecchia porta araba del secolo scorso è diventata un tavolo; alcune valigie piene di indumenti fanno da installazione a parete, ndr).
Grazie alle domeniche per le famiglie da mezzogiorno a chiusura i bambini non pagano da mangiare. Nei mesi invernali, ricominciamo il rito del tè africano: migranti sans papier lo serviranno ai nostri visitatori, ricavandone 20 cent a tazza versata. Avranno così i soldi per piccoli gesti quotidiani, molto importanti per non precipitare nel buio.”
“La mia struttura riesce a dare lavoro a dodici persone di nove nazionalità diverse: cerco di lasciare un’impronta sociale, una macchia di colore che superi il grigio. Macchia di colore è anche il nome dell’associazione e della casa editrice che ho fondato e che prima si riuniva in un minuscolo club vicino all’Istituto Orientale, sempre qui nel centro storico, nei pressi di Largo San Giovanni. Molti dei miei ospiti ritornano volentieri qui, dopo aver vissuto quella prima esperienza (Viviana Rasulo, il medico fotografo che espone attualmente a Teranga, era anche una frequentatrice di Macchia, ndr). La mia casa editrice pensa libri per migranti e la mia ambizione è iniziare presto corsi di scrittura creativa per migranti e non. Credo molto, anzi moltissimo nel potere della parola e sin da quando sono arrivato qui quindici anni fa (era a Tolosa dove giocava nella squadra di basket cittadina, poi si è lasciato convincere a giocare negli juniores del Napoli, ha avuto un infortunio e ha lasciato lo sport agonistico per fare mille mestieri e poi arrivare a quel che è ora, ndr) ho sempre detto la verità, certo di poter ottenere quello che volevo.”
Questa intervista inizia al caffè arabo di Piazza Bellini, una delle colonne della nightlife e dell’intellighenzia napoletana, dove mangiare falafel e bere tè del Medio Oriente si accompagna sovente a incontri belli con persone uniche. Poi prosegue al Teranga, durante una lunga preparazione del tè africano. Tante bolliture e mescite da una caraffa con abbondante tè cinese verde in foglie ad un’altra vuota, fino a ottenere un liquido densissimo e scuro (non deve ne’ bruciarsi, ne’ intorbidirsi molto: è un’arte sapere quando smettere, occorre prendere un marito africano!). Che poi si zucchera in abbondanza e si continua a travasare da una caraffa all’altra (senza foglie) fino a creare una fitta schiuma che fa da cappello al bicchiere che si beve. Si versa facendo il giro del tavolo dei commensali, prevedendo anche quelli che sono in altri punti della casa.
“Ci sono certe cose che prescindono dalle leggi (anche se in Italia le leggi che vigono non sono uguali per tutti, in particolare sono differenti tra migranti ed autoctoni). E l’Italia non è pronta a cambiare. Oltretutto ci sono una pluralità d’istituzioni religiose che sono parte del problema per come aiutano i migranti e per le basi che hanno posto nelle leggi italiane profondamente razziste (perché poi si stigmatizza la Sharia come legge di origine religiosa e non lo si fa del codice penale italiano che è basato sulla religione cattolica?). Ho seguito con molta attenzione le prime settimane del pontificato di Papa Francesco, che mi ha deluso: provocazioni utili a sostenere un ricambio d’immagine della chiesa e anche della sua immagine.“
Gli dico: parto da Napoli perché gli occhi delle persone sono dolci e spenti, tristi e rassegnati, mi verrebbe da strapparmi i miei e darglieli. I tuoi occhi sorridono, chissà se i miei divengono tristi così quando arrivo a Napoli…
“Oggi ho deciso di mettere le persone che mi assomigliano intorno a me, non riesco più a cambiare le persone. Tuttavia qualche sorpresa esiste ancora. Ad esempio una volta abbiamo avuto un ospite razzista, sono stato felice di averlo fatto andare via contento e molto scettico sul suo razzismo. Tornando alla tua tristezza su Napoli, mi dici un posto dove non c’è tristezza?”, mi chiede Judicael. Io non so rispondere.
“Continua a sorridere, che conquisterai qualsiasi essere umano”, mi saluta, non prima di aver provato a convincermi ancora a non partire, almeno non subito, da Napoli, mia città natale. Lo fa con un abbraccio fragoroso in punta di scale. E’ alto 1.94, quasi trenta centimetri più di me: ha voluto che la scala ci rendesse au paire, scegliendo con cura il gradino dove posizionarmi.