La vostra storia, senza dimenticare dove vi siete incontrati
(Kathleen): Sono nata in California, la figlia di mezzo in una famiglia di cinque. Mia madre era una grande storyteller – quanto amava la lingua! Amava particolarmente i tributari delle storie familiari e la descrizione dei luoghi. Mio padre, un avvocato delle cooperative di agricoltori della Central Valley, era assai attaccato alla natura e alle montagne – pescava ogni volta che poteva. Gli piaceva fotografare paesaggi e preferiva non includere le persone.
Da bambina amavo ogni luogo recondito – e amavo anche fantasticare di posti solitari. C’era un campo accanto a casa, che adesso ospita appartamenti, dove passavo la maggior parte del mio tempo. L’ho sempre sognato tantissimo. Si seppe poi che era un luogo di sepoltura indiano ma lo hanno raso al suolo e vi hanno costruito comunque, case per professori. E nella mia immaginazione c’erano terre e brughiere di ogni romanzo inglese del 1800, letteratura che ancora trovo irresistibile. Sono cresciuta nella Silicon Valley prima che diventasse soltanto un posto per ricchi. Il clima era perfetto e le persone venivano quasi sempre da fuori. Sono andata ad una scuola cattolica e ho sviluppato un’attitudine per fissare a lungo qualcosa mentre pensavo ad un’altra.
(Young Suh): sono nato in Corea e al tempo mio padre era un militare. Al college ho studiato biologia ma trovai presto un club di fotografia per studenti di cui divenni subito membro perché volevo usare la Nikon F3 che mio padre teneva chiusa in un cassetto e, siccome non la usava mai, ogni tanto me la prestava. La ottenni, la usai e poi la vendetti a un banco dei pegni per bermi i soldi. Alla fine la riprendemmo, un amico la comprò per me indietro, perché avevo bisogno di soldi. Dopo il servizio militare decisi di lasciare biologia e di trasferirmi negli Stati Uniti per andare a scuola di fotografia con quattro altri amici che incontrai al club del College. Mi sono poi trasferito a New York dove ho studiato al Pratt Institute con un insegnante eccezionale, Phillip Perkis.
Da allora fui incline a pensare alla fotografia con un significato più profondo. Dopo il Pratt, mi sono iscritto a un programma alla Museum School di Boston dove per la prima volta ho sviluppato l’interesse per il paesaggio americano.
Ci siamo conosciuti a Yaddo, un programma di residenza per artisti nei boschi di Saratoga Springs, New York, nell’estate del 2011. Era un pomeriggio nuvoloso e Young fumava.
Discutemmo di paesaggio nell’arte e Katie guardò le foto di Young dei grandi incendi del 2008 in California – aveva seguito i pompieri per fare le foto degli alberi in fiamme. Uno dei posti in cui era stato era la parte est della Sierra Nevada, Mammoth Lakes, California. E’ la landa più brulla e desolata della famosa catena montuosa che ospita anche Yosemite e gli splendori blu del Lago Tahoe. Katie aveva vissuto in quella regione per diversi anni, insegnando in una piccola scuola chiamata Deep Springs dove gli studenti lavorano in un ranch e in una fattoria mentre prendono lezione. Una foto ritraeva la pineta di Jeffrey nella Owens River Valley immerse nel fumo dei roghi, con una lunga visuale – romantica e terribile, era proprio quella del luogo dove lei era stata molte volte.
Quando ci siamo trovati, abbiamo impiegato un sacco di tempo a conoscerci in silenzio, guardando ai nostri scritti e alle nostre foto. Katie tornava da un’estate passata in Francia.
(Katie): forse il mio inglese sembrava più modesto per quello?
Da straniero, Young aveva sempre pensato che la poesia fosse un medium mistico e distante. Parlare con un poeta in totale intimità, è stato per lui un’esperienza fantastca.
(Young) Certo, mi sono innamorata di lei immediatamente. E delle meravigliose parole con cui mi parlava tutti i giorni.
E riguardo alla vostra mostra Can We Live Here? soprattutto in rapporto alla UN Climate Conference che si è svolta di recente a Parigi: come combinate la vostra poetica a quello che è successo lì?
Per noi l’arte non può aggiustare il mondo, ma può aiutarci a sopravvivere. E la sopravvivenza umana è il soggetto più incredibile da esplorare.
Quando ci occupiamo di cambiamento climatico non pensiamo alla risoluzione del problema. Pensiamo a sopravvivere in un clima imprevedibile, difficile o impossibile. E non è perché non siamo interessati al problema. E’ perché desideriamo guardare dritti alla questione senza illusioni.
Il cuore del problema non è una faccia di una montagna, è una faccia umana. E noi la viviamo.
Gli abitanti delle Marshall Island vivono in un paesaggio che scompare.
I livelli del mare crescono attorno a loro. E le loro case affondano. Noi riconosciamo la loro lotta. Non possiamo sperare di migliorare le loro vite – ‘migliorarle’ abbastanza secondo il significato americano – ma desideriamo con il nostro lavoro riconoscere la loro lotta. Due gradi (di abbassamento della temperature) non è abbastanza per loro. E se nulla è abbastanza per loro, chi li salverà? Potrebbe essere che gli artisti salvino qualcosa. Il nostro lavoro è una memoria vivente – i paesaggi che scompaiono, dato che documentiamo i deserti profondi e l’Artico. Vogliamo contribuire a una memoria vivente di questi posti in uno stato di cambiamento.
Ci sono ogni genere di battaglie causate dal cambiamento climatico. E’ molto di più che lo scioglimento dei ghiacciai. I problemi umani stanno diventando più visibili con le migrazioni, la povertà e i disastri naturali. La battaglia è cambiare il modo in cui viviamo.
In assetto di sopravvivenza, ciò di cui abbiamo bisogno non è soltanto il miglioramento delle condizioni ma anche molto storytelling. Ci rincuora che molti già sono d’accordo con noi e pensiamo che lo storytelling sia già cresciuto tra gli esseri umani grazie ai social network, molto più di due gradi.
Abbiamo però bisogno di uno storytelling che parli di chi vive in un mondo difficile dove le cose non sempre vanno come dovrebbero o nel modo in cui le abbiamo pensate. Questo tipo di storytelling è il modo di trovare un significato quando tutto precipita. Noi viviamo nella meravigliosa California – un posto dove spesso la vita non sembra precipitare e invece, ad uno sguardo più attento, si sbriciola con la gentrification delle città, la diminuzione delle risorse, ignorando l’importanza delle arti e preferendo il consumo di tecnologia, con la contaminazione dell’aria in un posto come Porter Ranch (2016), con un’infrastruttura statale che spesso è sull’orlo del collasso, dopo una serie di annate di siccità, vedere la pioggia che da un lato fa ridiventare verdi le colline e dall’altro allaga le vallate riarse. Un sogno e una disgrazia, che ci eccita e ci sfida.
Eravamo in radio qualche giorno fa. Il giornalista ci ha chiesto che facevamo nel nostro lavoro e noi abbiamo risposto: mostrare quanto fosse meravigliosa la continuazione di questa battaglia. E lui ha ribattuto che le nostre fotografie sembravano piene di pace e calme. Katie rispose che le persone sembravano bloccate – la ragazza nella vasca da bagno, il ragazzo con la torta di compleanno in piedi in mezzo ad un paesaggio desertico e selvaggio, una ragazza al cellulare in mezzo ad una pista di ghiaccio in Alaska. Volevamo mostrare vite in uno stato di preoccupazione, anche se ancora capaci di provare piacere nel mondo in parentesi di umanità. Non volevamo però farlo facile. L’ansietà può diventare gioia in un batter d’occhio e del pari tornare com’era. Gli sguardi sulle facce delle persone che abbiamo ritratto sanno che l’acqua sta salendo ma desiderano andare a nuotare ugualmente.
La Conferenza sui Cambiamenti Climatici ha ospitato leader di ogni genere. Noi siamo più interessati agli attivisti, agli artisti, ai partecipanti che hanno portato storie individuali che parlavano di problemi e sopravvivenza – quelli che sono venuti lì con le loro vite private squadernate in uno spazio pubblico per chiedere non solo un cambiamento ma anche una sorta di ammissione della loro presenza sul pianeta.
Se scriveste qui una lettera di invito alla vostra mostra (o ai talk o alle performance) al Presidente Obama e alla First Lady Michelle Obama, che cosa scrivereste?
Cari Signor Presidente e Signora Obama,
Desideriamo invitarvi in galleria quando è calma e quando non c’è nessuno degli eventi in programma.
Vi invitiamo a sedervi e leggere del mondo intero in un piccolo banco esattamente come quello in cui una delle più famose poetesse americane, Emily Dickinson, fece quando scrisse questi versi:
La mia vita si è fermata – una Pistola Carica –
In Angoli – fino a un Giorno
Il Proprietario passò – identificato –
E mi portò via –
Vi invitiamo a sedervi e leggere per qualche momento. Immaginiamo che ad un certo punto le vostre mani si mettano a frugare e quindi troverete nel cassetto del banco, la forma di qualcosa. Immaginiamo che vi chiediate di cosa si tratti, che spostiate la vostra sedia di un poco e, distratti dalle vostre letture, guardate cosa state toccando. E’ una pistola – di plastica, certo, una replica – ma nonostante tutto è carica.
Vi invitiamo a continuare a leggere, a guardare i bellissimi paesaggi e ritratti americani (molti di vecchi e di giovani, molti di persone di colore) sapendo che la pistola è nel cassetto. Abbiamo come il senso che questa non sarà una cosa nuova per voi ma quasi un riconoscimento con un che di familiare.
Infine, vi invitiamo ad incontrare la nostra fonte di ispirazione – l’asino. Il più amato, e il più bistrattato, animale al mondo.
Ha molto da insegnarci.
Non stiamo pensando al vostro asino democratico ma agli asini dell’intero globo, a tutti gli 82 milioni, a quelli africani e a quelli americani, agli asini del Medio Oriente che trasportano droghe valicando montagne con un nastro registrato che impartisce istruzioni.
Pensiamo che questi asini surclassino il simbolo del vostro partito. E siamo molto più interessati ad essi. Vi invitiamo a guardare i film che abbiamo girato passando il nostro tempo con un asino: raccontano come veniamo interrotti, come volevamo fare qualcosa di fantastico che però veniva modificato – volevamo fare dell’asino un picnic perfetto ma lui aveva un’altra idea.
Abbiamo come il senso che voi sappiate qualcosa circa fare cose meravigliose in un mondo difficile ed avere a che fare con lo sconforto.
Venite quando non c’è gente e state quanto volete. Quando entrerete nella galleria, uscirete dall’America e entrerete nel mondo.
Con affetto, Katie e Young
E’ un sogno, parlo dal punto di vista dello spettatore, vedere poesie e paesaggi insieme dato che uno aiuta l’altro ad essere completo.
Come è nato questo progetto collaborativo? E’ stato un vostro progetto autonomo o ha coinvolto l’intervento di un curatore? Come continuerà?
E’ nato perché stavamo capendo come potevamo vivere insieme. Abbiamo vissuto da soli per molto tempo. E volevamo vivere insieme a lungo.
Ma quando si comincia a vivere insieme iniziano le lotte. Parlavamo come se facessimo una conversazione con due metà. Pensando in due differenti lingue, coreano e inglese. E pensavamo anche con due media differenti, immagini e linguaggio. Pensavamo di costruire qualcosa insieme per sapere come vivere insieme.
Ci immaginavamo molto di più in viaggio che in una casa. Ci siamo conosciuti come viaggiatori, in realtà – in una residenza dove nessuno rimane a lungo – e ci siamo corteggiati lungo tutto lo stato, con Katie che viveva a Boston e Young a Davies, in California. Abbiamo speso un sacco di tempo per conoscerci meglio in posti remoti – Alaska, il deserto High Mojave – facendolo accadere con provviste e senza la struttura tipica del mondo domestico. Questa struttura è stata un mistero per noi, non eravamo neanche sicuri di volerla. Ma abbiamo cominciato a lavorare insieme quasi subito dopo il nostro incontro – ciascuno dava all’altro dei lavori da tradurre nel media che utilizzava: Katie scriveva una poesia e la dava a Young per farne un’immagine o viceversa, Young una foto a Katie che scriveva dei versi. Era un modo per capire di più di noi oltre un linguaggio convenzionale.
La nostra prima collaborazione è stata scrivere sulla superficie delle foto, il tono del lavoro era piuttosto aulico, estatico, spaventato, come uno scarabocchio su uno specchio. Una sensazione di quasi troppa intimità nascosta nel lavoro. Ma ci piaceva lavorare con sequenze e da questo è nata la voglia di un libro, qualcosa da tenere tra le mani. Sapevamo di voler fare libri. E abbiamo anche iniziato a fare film, un linguaggio che implica sia testo che immagine. In ogni caso, l’immagine, una sorta di riconoscimento di un sogno, ha originato il lavoro d’arte.
La curatrice Stephanie Hanor conosceva il lavoro di Young e gli ha offerto di fare una mostra – lui le ha raccontato delle collaborazioni e a lei è subito interessato.
Quando due persone immaginano una vita, non è sempre un percorso facile. Noi viviamo differentemente. Young dimentica facilmente del tempo che passa. Il mondo definisce tutto questo ‘lento’, pensiamo, ma Young lo vive proprio nella realtà. Katie si muove più veloce. Quello che si vede nel nostro lavoro è spesso un interesse nella velocità – un desiderio di rallentare o velocizzare le cose. Abbiamo fatto una serie di diapositive e le abbiamo proiettate da un camion nel deserto, filmandole mentre guidavamo. Le immagini si muovevano come un film, rozze e saltellanti. Il proiettore di diapositive che abbiamo usato, tecnologia antica, ha risposto proprio bene allo scopo. Si vede il deserto emergere sotto le immagini, la maggior parte ritraggono persone che pensano o che si preoccupano. Tutti quelli che sono ritratti sono stati trasferiti nel mondo di natura. Volevamo rendere loro omaggio portandoli nel deserto, uno dei posti che amiamo di più, per vedere se potevano rallentare un po’ come soggetti fotografici laggiù. Ma fare questo lavoro è stato comicamente difficile! Abbiamo avuto bisogno di amici che guidavano, Katie proiettava e Young stava dietro di lei con la cinepresa a filmare in primo piano le diapositive.
D’estate abbiamo lavorato con un vecchio camion e un generatore arrugginito e d’inverno le nostre mani si sono quasi congelate. Queste narrative visive sono parte del nostro film Earthly Conversations and Slow Moving Things. Ha richiesto tutta la pazienza di Young e tutta la forza d’animo di Katie.
Dal generale all’intimo – dal molto pubblico al molto soggettivo: che scala vi è più congeniale per parlare di natura alle giovani generazioni (e ai vostri studenti)?
(Katie) Sono interessata alle esperienze che si ripetono – qualsiasi cosa che comincia a prendere forma, nel tempo, di rituale. Le esperienze possono sembrare piccole o grandi per il corpo umano. Molte delle esperienze in natura hanno il vantaggio di farci sentire piccoli nel corpo. C’è dell’umiltà in questo sentimento ma anche una sorta di comprensione sulla scala umana – un recupero dell’idea originaria di scala umana, qualcosa che invece è costantemente messa in discussione nel mondo.
Io indirizzo i miei studenti proprio verso le piccole proporzioni sia nel linguaggio che nell’esperienza. Emily Dickinson, o William Blake, vedono il mondo naturale come simbolico ed incredibile ma anche vivibile. E io chiedo ai miei studenti di utilizzare tutti i cinque sensi. La mia lezione preferita è quando discutiamo di un solo haiku per un’ora. Emily Dickinson scrisse in una lettera: ‘Conosco la Farfalla – e la Lucertola – e le Orchidee – Non sono questi i tuoi compaesani?’
(Young) Credo più nelle esperienze che nelle idee. E l’esperienza è per forza intima ed individuale. Voglio che i miei studenti provino prima che sappiano cosa significhi.
(insieme) I giovani sono sempre attratti da grandi concetti e da significati chiari. Un significato chiaro è l’inizio di qualcosa di nuovo, dal nulla. Ma la natura non ci offre questo – ci offre una storia geologica, un tempo cosmico, un senso del passato che è stato sporcato e formato dal comportamento umano. Che sia troppo dipendente dall’uomo oppure no, la natura ci offre una comprensione che riscatta gli individui come parte di un grande insieme. Le nostre esperienze in natura ci dicono che tutto è stato creato prima del nostro arrivo sul pianeta.
Oakland: ci date due (uno ciascuno) piccoli e contemplative ritratti dell’area che ospita il museo dove esponete?
(Katie) Il museo, che prima era una sala da ballo, si trova in un campus verde e meraviglioso, nel bel mezzo di un quartiere alle prese con la povertà ed il crimine. Siede su una collina. Ma il museo è gratuito.
Qui abbiamo ascoltato una dei Black Panthers, Elaine Brown, fare una conferenza l’anno scorso. Disse ‘ Oakland è una città radicale perché ha un porto che potrebbe essere chiuso.’
Una grande comunità e un grande isolamento possono anche coesistere in questa città. Abbiamo pensato a questo quando abbiamo creato 12 copie del piccolo scrittoio della Dickinson messi a croce nel mezzo della galleria – un’opportunità per la comunità di sedersi tutti insieme e leggere. Non una libreria, ma una stanza libera per la mente. Non facile da ottenere ma neanche impossibile.
(Young) Se penso a un’istantanea di Oakland penso al lavoro fotografico di Richard Misrach sugli incendi che distrussero 3000 case nel 1991. Sebbene non ve ne sia più alcuna traccia, la città sembra conservare la memoria di quelle rovine. Forse tutte le città lo fanno.
Che libro e che musica sono con voi in questo momento (e dove sono)? Ci descrivete anche il modo in cui avete costruito il libro che i visitatori troveranno in mostra?
Il libro e la musica socievoli con noi in questo momento? In questo momento, altrimenti sarebbero troppi…
Young ormai è totalmente preso dalla quadrilogia di Elena Ferrante. E’ assolutamente pazzo del potere della narrativa in prima persona. E’ alla fine del terzo libro e ha capito che lo scopo della vita non è creare un solo significato ma la sopravvivenza della vita stessa che consiste di molte parti di cui non siamo in controllo. Essere capaci di vivere pienamente e con intensità, e con serietà, è quello che i suoi personaggi mostrano. Young ama anche l’opera. Per entrambe queste ragioni, impazzisce all’idea che la nostra intervista venga anche tradotta in Italiano – non ha mai visitato l’Italia ma desidera molto. L’opera trasferisce intensità nella contrapposizione.
L’esperienza estetica dovrebbe essere fatta di pura intensità. Le più belle opere di Verdi sono Un Ballo in Maschera e La Forza del Destino. Entrambe sono storie di destini al di là del proprio controllo.
Katie sta leggendo scrittori che parlano del Nord per un corso in cui insegna, in particolare di scrittrici indigene come Joan Kane, dg nanouk okpik. Poi North, il meraviglioso libro di Seamus Heaney con le mummie trovate nelle paludi irlandesi, Marina Tsvetaeva ed Anna Akhmatova tradotte. For Pleausre, Mausoleum of Lovers, giornali di Herve Guibert che parlano di storie d’amore che ha avuto e non, raccontate in un diario e quindi lentamente e in tempo reale.
Sulla musica, Katie ha una canzone catalana che le frulla in testa, Qualsevol nit pot sortir el sol di Sisa, e poi un’altra, Sweet Thames Flow Softly, e ascolta sempre Sandy Denny e Fairport Convention, qualsiasi cosa che sia folk e in cui la tristezza raggiunga un vertice; la canzone Tecumseh Valley di Townes Van Zandt. Canzoni dove la musica trattiene un sentimento in colori e dettagli, canzoni dove la voce al contempo sembri venire da una persona in carne ed ossa e da qualcosa che è molto più grande di una sola persona.
Noi li facciamo insieme, i libri. E’ difficile ricordare come accada e comunque è differente tutte le volte che lo facciamo, riuscendo a trovare una quadra. Young ha le immagini e le seleziona a gruppi e ci lavora sù. Cerchiamo ovviamente di seguire un insieme di personaggi attraverso il mondo.
Un insieme di libri – quattro libri – sono intitolati Life in a Field. E’ una favola debole, senza magia, che parla di una ragazza che diventa amica di un asino (forse conosci Au Hasard Balthazar di Robert Bresson – cerca di essere una versione comica di quel film). Katie l’ha scritta la scorsa primavera e abbiamo messo insieme il ibro quest’autunno – le foto non parlano della storia della ragazza e dell’asino, parlano di una storia più ampia, di un mondo più grande entro il quale la storia si sviluppa.
I libri sono stati meravigliosamente rilegati a mano da Chris Martin, un rilegatore che è anche un poeta e ha la sua stamperia in Colorado.
In che modo cercate di vivere lentamente, se ci riuscite, nella vostra città?
Young vive sempre lentamente. Katie lo trova più difficile.
(Katie) Young dimentica il tempo, così vive lentamente. Non si occupa del tempo, al contrario è il tempo ad occuparsi di lui. E’ felice di fare una sola bellissima cosa al giorno. Quando l’incontrai, era a suo agio a lavorare per cinque o sei ore e poi iniziare di nuovo a lavorare nel bel mezzo del pomeriggio. Fa ancora così quando può.
Vive lentamente non chiedendo sempre il significato delle cose quando le sta facendo. Gli piace guardare i ragazzi, gli anziani, le persone in strada – nessuno sfugge al suo sguardo, sempre curioso e fuori dal tempo come un poema, cercando di essere con la persona solo per un momento. Prepara una tazza di caffè così lentamente, ed è la più buona. Esce per una passeggiata non per una corsa. Non si cura di finire tutto – dimentica se stesso. L’unica cosa che Young non fa lentamente è mangiare.
(Young) Katie è sempre tre passi avanti a me. Il suo cervello lavora così veloce ed in maniera così efficiente che penso che crei spazio per la lentezza in questa maniera. Per esempio si sveglia alle 4 del mattino per lavorare alle sue poesie prima che inizi la sua giornata, perché una poesia non può venire fuori da un cervello affaticato. Ammiro il suo essere proattivo e il suo reclamare il tempo. E’ una persona davvero responsabile e cerca le risposte dal mondo ogni volta. Non sarebbe in grado di fare arte senza un grande coinvolgimento. La velocità ha il desiderio di controllare la lentezza. Invece di essere lenta, lei forse cerca di essere veloce abbastanza da essere lenta.
Cosa avete imparato dalla vita sin qui?
Che la vita ha i suoi piani, che non riguardano la persona che la vive. Non è sempre così malvagio – che l’amore possa essere un piano tipo quello. La vita è come la famiglia – qualche volta la ami qualche volta ti annoia a morte. Hai l’onore che ciò che non controlli e non conosci devi di grazia rispettarlo.
La mostra di Young Suh e di Katie Peterson intitolata Can We Live Here? Stories from A Difficult World è aperta fino al 13 marzo 2016 al Mills College Art Museum (Oakland, California).
Per maggiori informazioni sulla mostra e sul calendario di eventi (performance, conferenze e proiezioni): mcam.mills.edu
Per leggere di più di Katie Person come poeta e scrittore (a parte i versi che pubblichiamo su Slow Words per gentile concessione dell’autrice): http://www.poetryfoundation.org/bio/katie-peterson