Lussureggiante prato verde della lunghezza lineare di un metro e 10 grilli. Centometriquadri di verde acido. I titoli delle opere oppure delle performance della sua compagnia/palindromo, Cosmesi – assolutamente letterali – aprono il mondo di Nicola Toffolini, uno degli artisti visivi italiani più promettenti e talentuosi. Toffolini è, non certo azzardiamo, la versione attualizzata di Leonardo: indaga la creazione smontandola pezzo per pezzo e rimontandola con una grammatica implacabile, esteticamente totalizzante, precisa come un mondo, tutte le volte nuovo, che si muove e si estende verso ogni direzione (inclusa densità, struttura neurale e molecolare delle azioni, il dopo e il prima, la durata bergsoniana – anche quando si tratta di un disegno o di una scultura).
L’abbiamo conosciuto quasi dieci anni fa quando ha vinto un premio per l’arte e l’innovazione a Milano, Technè 2, con “Naturale che piove: fare il bello e il cattivo tempo”. E’ stato premiato per un giardino (vero e pulsante) inscatolato dentro una chirurgica ma munifica serra di acciaio, che donava linfa, acqua, protezione e temperatura costante alle piante. Tutto progettato e prodotto dall’artista, che quando invece si diletta con la performance, crea e costruisce molto più che una stanza dove far agire la sua metà coreografica, Eva, e dove far viaggiare spettatori increduli ed estatici. Crea un media vivo che viaggia, sicuro, verso il remoto spazio della mente che Cosmesi vuole rappresentare. Un mondo che, sempre, alla fine, gli spettatori si portano a casa e fanno proprio. Molto più di un rossetto o di un kajal. Un tratto di cosmesi permanente.
E’ possibile sia trovarlo in musei, biennali e fondazioni che calcare i palchi di Drò de Sera e Sant’Arcangelo, tra gli altri festival a cui è stato invitato. Questa è una mia intervista a Nicola pubblicata su CultFrame nel 2011, alla vigilia dell’apertura della Biennale dei Giovani Artisti di Monza, mentre l’artista si dedicava ai numerosi progetti aperti sul suo desktop. Il suo nuovo sito è un archivio prezioso che racchiude tutte le sue creazioni (disegni, opere, performance) divise per anno.
Architetto, artista, performer, coreografo, inventore di mondi. Quale parte di te preferisci, quella con cui ti senti più completo o più autentico?
Cerco solo banalmente di inseguire un’idea e di formalizzarla col mezzo con cui sento-penso meriti essere concretizzata. Per il resto preferisco curiosare e cercare di fuggire il più possibile dalle classificazioni. Mi sento a mio agio quando riesco a sentirmi ancora mobile.
Il tuo progetto di ricerca Cosmesi, nato nel 2001, ti ha permesso di indagare in modo originale e superlativo il territorio della performance e del design. Come è nata Cosmesi? Che cosa ha rappresentato per te come artista visivo calcare le scene di festival come Sant’Arcangelo o Mittlefest? Che influenza la tua arte ha avuto sulla performance e viceversa?
Cosmesi nasce tra il 2001 ed il 2003 quando con Eva Geatti decidiamo di voler provare a dare forma e mettere in scena le nostre idee in ambito teatrale. Abbiamo inteso Cosmesi un modo per transitare liberamente tra le discipline e di coinvolgere, a seconda delle specificità dei progetti, tutte le figure che potevano contribuire a sviluppare ciò che ci frullava in testa. Sviluppare un progetto in teatro è un fare fortemente condiviso, un continuo confronto complesso ed estenuante che confluisce in quegli attimi sospesi in cui lo spettacolo ha poi vita. Al di là del prestigio del luogo o del festival che ci ospitano e che al limite possono aumentare le sole responsabilità, trovo sempre sorprendente il denso senso di complicità che si instaura durante la replica di uno spettacolo, quando il fare di tutti confluisce in un unico flusso puntuale di azioni coordinate, come in un sentire comune, cosa che difficilmente ritrovo nell’altra parte del mio lavoro dove a prevalere restano le mie sole decisioni; da ultimo il confronto diretto col pubblico che rende ogni evento in teatro. Le idee e le suggestioni poi transitano avanti ed indietro da Cosmesi al mio fare e viceversa con estrema naturalezza.
Nell’ultima pièce di Cosmesi che abbiamo visto, PERIODONERO allo Spazio Pergolesi in collaborazione con uno dei pochi teatri di Milano con una stagione convincente (Teatro I), hai lavorato grazie al supporto dello ZKM di Karlsruhe: avresti potuto trovare lo stesso sostegno in Italia?
Abbiamo lavorato anche con lo ZKM di Karlsruhe… La produzione del lavoro è tutta italiana ed oltre a Cosmesi stessa abbiamo beneficiato del supporto del CSS – Centro servizi e spettacoli di Udine, che sostiene da un triennio il nostro fare e di Centrale Fies di Drò, dove lo spettacolo ha debuttato nel 2009. Lo ZKM è stata la vera ciliegina sulla torta. Avevamo la necessità di lavorare in chroma key e ci hanno concesso in più puntate studi e macchine per eseguire le riprese. Inutile dire che questa struttura è realmente incredibile e difficilmente immaginabile per il nostro paese: un vero colosso votato alla ricerca nell’ambito delle arti e delle nuove tecnologie multimediali, con sostegno pubblico e privato e l’entità degli investimenti è palese… è un manifesto concreto della fiducia di politica ed imprenditoria verso le potenzialità dell’operato di artisti e ricercatori…
“Mi spengo in assenza di mezzi” è un j’accuse verso l’assenza assoluta di interesse verso l’industria del teatro contemporaneo da parte delle nostre istituzioni. E’ cambiato qualcosa?
L’assenza di investimenti e di politiche lungimiranti riguardo al teatro, all’arte, alla cultura in tutti i suoi vari aspetti e alla ricerca in generale mi pare sia dato evidente a tutti e su cui non valga la pena di insistere oltremodo. Piuttosto gli aspetti che più ci fa più impressione in quest’ultimo periodo si stanno spostando su fruizione ed offerta: la progressiva erosione del pubblico, ridotto sempre più spesso a cerchie ristrette di addetti ai lavori, o ancor peggio conformista ed eterodiretto, asservito a dinamiche di ridondanza comunicativa (oramai indistintamente a tutti i livelli dal mainstream alla ricerca); una produzione e distribuzione sempre più standarizzata e omologata al ribasso, tutto ciò che non fa numero non trova spazio, tutto ciò che non si allinea o che si pone in modo critico-problematico viene sistematicamente eliso. L’appiattimento è la diretta ed inevitabile conseguenza. Se le idee che circolano sono sempre meno e sempre meno le persone coinvolte, l’impoverimento è di tutti.
Sei un fruitore entusiasta delle automazioni e delle tecnologie audiovisive oppure ti interessa entrare nel “meccano” della creazione e trovare le tue risposte tecnologiche ai bisogni delle tue opere? Penso al premio Technè a cui hai partecipato e vinto diversi anni orsono.
Tecnofilo o tecnofobo a seconda… e nei lavori emerge spesso questa natura bipolare. Cerco di indagare le potenzialità espressive di alcune componenti tecnologiche cercando il più possibile di non farmi incastrare dall’ostentazione del semplice tecnicismo. L’innovazione fine a se stessa e il gioco dell’obsolescenza sistematica delle tecnologie di consumo mi riguardano poco… sempre meno.
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Nicola Toffolini (1975) vive e lavora tra Firenze e Cosiano (Udine), dove è nato. Artista, performer, designer ha una formazione di architetto. Ha esposto mostre personali in importanti spazi pubblici e privati, gallerie e fondazioni tra cui: Biagiotti Firenze; Rocca Estense (San Martino in Rio); Not Gallery Napoli; LipanjePuntin Artecontemporanea; Istituto Italiano di Cultura di Lubiana; Placentia Arte, Piacenza; Villa Manin, Passariano.
Tra le collettive e le fiere, tra gli altri: ArteFiera, Private Garden, Loft Project, San Pietroburgo; Artissima e Parco Arte Vivente, Torino; Expo Shangai 2010; Shanghai Urban Planning Exhibition Center, Shanghai, Palazzo Re Enzo e Pinacoteca, Bologna; Isola di Sant’Erasmo, Venezia; Palazzo Strozzi, Firenze; Brown Project Space, Milano; Istituto Italiano di Cultura, Madrid, GC.AC Monfalcone; Riccardo Crespi, Milano; Mole Vanvitelliana, Ancona; Orto Botanico, Palermo e Parma; Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia; MUAR Mosca.