Compone coreografie a partire dalle biografie da chi lo circonda, ‘persone di questo mondo’. E quindi Slow Words l’ha amato dal primo sguardo. E lui ama Tel Aviv ma come molti coreografi, vive a Berlino.
Nir de Volff dice, di Tel Aviv: “E’ una bolla, un paese dentro un paese. Come il Vaticano, ma libero da ogni costrizione. Venezia e Tel Aviv sono relativamente vicine, meno di quattro ore di aereo, dovrebbero sviluppare relazioni più strette. Devi sapere che Tel Aviv è una delle città più sicure e libere del mondo, e te lo dico perché ho girato parecchio, da San Paolo a Bangkok a Mosca….Non credere solo a quello che leggi dalle news, dovresti andare e provare di persona!”
Ho visto la sua danza, incredibilmente potente, in un teatro italiano, dove ha firmato a metà una pièce (Never Forever) con un regista di teatro puro, Falk Richter. E’ la prima volta che mi accade di pensare che danza e teatro possano funzionare così bene venendo create insieme: 105 minuti di danza e recitazione magicamente incapsulati in una sorta di manicomio che mostra le frustrazioni di chi vive in un perenne sbilanciamento – il bisogno e la paura (insieme) dell’intimità.
Gli piacciono, dice, i piccoli pubblici dove la scelta di intrattenimento è ancora una volta di più il teatro, magari comprando un biglietto che costa poco, meno di quello di un teatro lirico.
Questo tipo di pubblico aspetta proprio te, dice, alla fine dello spettacolo e ama condividere e commentare.
“Il nome della mia compagnia, Total Brutal, può accontentare un vasto pubblico. Alle volte anche le signore borghesi di 65 anni che amano l’opera: anche loro vengono a vedere le mie performance…
Lavoro con molta libertà, humour e autoironia, tutti caratteri fondamentali della mia arte. Il lavoro è serio e spesso triste. E i miei spettacoli oscillano tra tutti questi elementi.
Lavoro sempre con persone che conosco molto bene, è un rapporto altamente professionale ma sediamo fianco a fianco e dividiamo le nostre vite. Non è esattamente come venire in ufficio ed inviare email: io lavoro con le fragilità e con realtà multiformi in modo molto sensibile: questo in scena si vede. Uno dei miei danzatori, Florian, ha l’energia di cinque performer e parla cinque lingue: conosco la sua prima moglie, quella attuale e grandi parti di quello che è in scena in Never Forever.”
La tua storia in poche righe, con un pizzico di infanzia, degli studi e di quello che fai ora
Sono nato in Israele, mia madre viene dai Paesi Bassi e mio padre dall’Iraq, sono entrambi ebrei e divorziati. La mia città natia è Petach Tiqwa, la traduzione del suo nome suona più o meno come spazio di speranza, ma invece è totalmente senza speranza, qui trovi la prima dissonanza nel mio passato, proprio nel posto in cui sono cresciuto. Sono andato in una scuola normale, non ho particolari miserie nella mia infanzia. Ho scoperto le arti e la danza intorno ai sedici-diciassette anni. Poi sono andato al servizio militare ed è stato un periodo assai depressivo. Sei costretto a seguire delle regole quando la tua anima è giovane e non ancora adusa al mondo. Sei forzato a imparare come usare una pistola! Non c’è niente di più orribile del capire che puoi uccidere qualcuno.
Dove hai prestato servizio?
Sono stato fortunato, mi è stato assegnato uno status speciale essendo un ballerino d’eccellenza di Israele: non sono stato costretto a combattere. E dormivo tutte le sere a casa. Verso la fine ho avuto una crisi psicologica e non riuscivo più a stare nell’esercito, così fortunatamente sono stato trasferito nel posto più fantastico per fare il servizio militare: la stazione radio, che si trovava in un posto bellissimo a Giaffa. In qualche modo la fine del mio servizio è stata accettabile. Lavorando in radio, avevo continuamente incontri con persone famose e questo conta quando hai 21 anni. Tuttavia, ancora oggi, qualsiasi relazione con l’esercito e quelle cose è assai negativa. Alla fine del servizio militare ho iniziato la mia vera carriera nella danza. Ho creato la prima coreografia a soli 22 anni: sentivo un’urgenza sin dall’inizio verso la mia creazione e non soltanto di seguire quelle degli altri. Tutto questo accadeva a Tel Aviv e la vita poi mi ha portato molto rapidamente in Germania. Era la prima volta che prendevo un aereo e la prima volta che arrivavo in un paese straniero. E Berlino era la città. Ci passai due mesi e tornai indietro pensando che non ero ancora in grado di lasciare la terra in cui ero cresciuto. Dopo tre anni mi sentii pronto ad aprire nuove strade, avere nuove possibilità. Quindi tornai in Europa. Non sapevo dove sarei stato, mi piaceva molto l’idea della diaspora, di essere un immigrato dell’arte, di scoprire nuove frontiere. Certo, ero un emigrante con un obiettivo, sapendo cosa volevo fare per migliorare pur non sapendo ancora esattamente come. Sono stato tra Bruxelles ed Amsterdam per tre anni: lì ho trovato risorse per i miei spettacoli; ho iniziato a creare, eccitato di essere in un posto nuovo. E poi mi sono trasferito a Berlino, dove vivo da circa dieci anni. Stabile.
Ti piace la scena berlinese come i primi giorni o senti che è cambiata?
Sono un intuitivo. Arrivo in un posto e la prima attrazione per me è l’energia e l’intuizione di dove mi trovi. Sono totalmente guidato dall’energia. Alcune città possono essere meravigliose ma poi non senti assolutamente energia o la necessità di sviluppare qualcosa lì. E’ come l’amore, sai. Ho semplicemente saputo che Berlino è la mia città. La prima città dove mi sono sentito a casa nella diaspora, dopo Amsterdam. Sono mezzo olandese quindi sono venuto in Europa anche per scoprire la vita che mio nonno non è stato capace di avere lì (è stato un sopravvissuto dell’Olocausto): ho pensato anche che questa era in qualche modo una missione.
Sei sempre contento di performare in qualità di artista internazionale oppure senti l’importanza della tua origine e della tua nazionalità nello sviluppo della tua creazione?
E’ molto complicato rispondere: io sarò sempre un immigrato integrato ma nessuno mi considererà mai un tedesco e non so neanche se voglio esserlo. E’ difficile, ultimamente (o altre volte) mi vergogno di essere israeliano se penso alla situazione politica di estrema destra e allo stesso tempo non voglio essere riconosciuto come un tedesco, almeno solo come tedesco. Sono come un ponte di un fiume senza pace, lo attraverso continuamente. Ma allo stesso tempo, ogni lavoro che scrivo e interpreto in Germania viene visto dagli spettatori e dai donors come quello di un coreografo israeliano. Non è facile ottenere critiche oggettive.
Anche dopo dieci anni, anche dopo che hai dimostrato di essere serio, che stai pianificando di mettere radici in un posto, in una città – dove prendi e dai – rimarrai sempre uno straniero. Non so quanti anni mi occorreranno perché le giurie non avranno dubbi sul fatto che sono qui per restarci e accettino il mio humour israeliano, il mio nonsense e la grande energia che metto nelle mie composizioni anche se è diversa da ciò che le loro “capacità intellettuali” avrebbero piacere a guardare.
Gravità e perdita di gravità….ancora, dopo tutti questi anni, è un sentimento straniante.
Come coreografo, che relazione hai con la parola parlata (non con quella scritta)? Come ti senti a lavorare quasi come un creatore di teatro e non solo come un creatore di danza?
Adesso il mio lavoro è basato su parole e movimenti. Non sono un coreografo standard che lavora solo con il corpo. Mi piace mischiare la mente delle persone con cui lavoro – i loro mondi interiori, le loro idee politiche, gli ideali e le ideologie. In questo senso, il teatro non è una lingua straniera per me. E’ parte del mio bagaglio. C’è un’importante narrativa delle varie storie/corpi che racconto. La parola parlata origina anche la necessità di narrative chiare di movimenti. Crea anche livelli che il corpo stesso non può spiegare da solo. Il corpo stesso è un oggetto che senza alcuna parola può impersonare migliaia di interpretazioni del suo significato. Una volta che aggiungi le parole, direzioni cosa vuoi dire. Va nell’altro senso, direi, iniziare con un testo e cercare il suo significato fisico, il testo deve collegarsi con il corpo, non c’è il dominio di una parte sull’altra.
Eri preoccupato o solo felice della condivisione di creatività, come accaduto in Never Forever? E’ veramente un grande sforzo lavorare in questo modo. Hai incontrato il regista molto tempo fa? E’ una collaborazione a lungo termine?
Lavoravo anche prima con grandi produzioni come per esempio per la Frankfurt Opera House, il Sao Paulo National Theatre, la Bangkok National University, lo HAU Theatre Berlin con She She Pop, etc…Sono a mio agio.
Sono sempre molto eccitato quando inizio un nuovo lavoro, non importa con chi. Paura? Zero paura! Ho dubbi, pensieri: perché dovrei svegliarmi la mattina e andare in studio se avessi paura? Penso che la paura limiti molto la creazione. La ragione per cui ero curioso ad iniziare un nuovo progetto con Falk Richter è perché anche lui inizia a creare da zero, senza script. Ogni mio progetto inizia allo stesso modo, ho un’idea, faccio un cast, faccio la scena, i costumi: nulla è scritto prima. A teatro di solito non si lavora così. C’è sempre qualcosa che esiste prima e tutto si riduce all’interpretazione che di volta in volta da il regista. Ora comincio a lavorare con un altro regista di teatro per il Maxim Gorki Theatre a Berlino e lì mi cimento in qualcosa di nuovo: lavorerò con un pezzo di teatro e solo con attori.
Forse sono più italiano in questo senso, mi sento libero, non pianifico molto e mi godo il momento. E, a riguardo dell’energia israeliana, noi diciamo che ogni giorno è nuovo e ci sono infinite possibilità. Mi definisco mobile: lavoro anche in gallerie e musei d’arte con le mie coreografie. Quest’ultima è una nuova direzione che il mio lavoro prende ora, sono un tipo di persona che ama cambiare, rinnovarsi e non ripetere, sempre e di nuovo. Mi eccitano le nuove idee, le nuove forme di azione e i nuovi spazi.
Il risultato più significativo, al momento, come coreografo e quello a livello più intimo?
Come coreografo, di essere capace di lavorare nei teatri più piccoli di fronte a sessanta persone e anche nei più grandi di fronte a migliaia. Di non essere solo accecato dalle migliaia e di non ignorare quelle meravigliose sessanta di fronte a te. Una delle performance più riuscite a Berlino era site specific, nella più famosa sinagoga della città, molto controversa. Per me questo significa sapere come essere diversi.
Come persona, essere in grado di preservare le mie relazioni con gli amici d’Israele come se non avessi mai lasciato il paese.
Il libro e la musica con te ora?
A Brief History of Human kind di Yuval Harari (un’analisi della storia del genere umano dall’evoluzione dell’uomo arcaico nell’età della pietra fino al 21° secolo). Adesso ascolto molto Umm Kulhtum, era la diva più famosa della world music araba classica, da Il Cairo. Una sua canzone molto famosa in particolare, Enta Omri (You Are My Love). Sono affascinato dalla sua voce e dalla sua passione. E poi Bjork, specialmente il nuovo album. E’ grande, molto consistente e sempre assai visiva: mi piacciono tutti quegli artisti con forti statement.
La tua strategia per vivere lentamente, se ci riesci?
Sono una persona lenta quando ha senso esserlo. Vado a Tel Aviv, sulla spiaggia: lì di sicuro vivo lento, ho solo bisogno di un breve tragitto in bici e sono al mare. Mi rilassa molto, mi da senso di casa, dove capisco la lingua al 100% e dove c’è sempre mia madre: nel peggiore dei casi, posso tornare da lei per un paio di notti. Questo tipo di ambiente in un certo senso crea “silenzio”, in Germania usiamo la parola Rühe, un intervallo di pausa del pensiero, certo non puoi farlo completamente ma lì diciamo che raggiungo una buona approssimazione. Quando eravamo più giovani, con alcuni amici eravamo soliti andare qualche giorno nel deserto del Sinai, ma non ho mai capito il senso di andare in un posto per rallentare. Sono l’opposto: io devo andare più veloce. E l’unico posto in cui sono lento è la spiaggia, lì sono le onde ad andare veloci.
Cosa la tua città (presumo si possa dire Berlino) ti dà e cosa tu dai a lei?
Sì, la mia città è Berlino. Conosco quasi tutto di lei e le do tanto. Ma ho due personalità, tuttavia. Non ‘avrò’ Berlino senza Tel Aviv e viceversa. Ho un passaporto olandese, sono molto sicuro qui in Europa e nessuno potrà cacciarmi (se guardiamo ai recenti accadimenti!). A Berlino lavoro in diversi spazi e invento spettacoli assai diversi, che sia in sinagoghe in musei o in club. A Tel Aviv non lavoro tanto ma lì ho un legame profondo, un amore ancora in corso.
Dono la mia vita a Berlino: con me puoi passare dalla tristezza al riso, dalla solitudine al divertimento. Spero di dare ispirazione per la creatività. Intelligenza ed humour, ben combinati con l’energia del corpo, sono i doni migliori che posso dare. Assisto a molta danza minimal, senza energia. Di contro sento che il pubblico apprezza molto più il dono dell’energia. Perché, a quel punto, la fa propria.
Cosa hai imparato dalla vita fino ad ora?
Cosa sto imparando – son ancora nel mezzo – è che la vita può finire oggi e quindi voglio godermela sempre di più, senza pensare ai prossimi dieci anni. E’ una grande sfida, vivere ed essere felici ora. Pianificare meno il domani.
Oggi allo Schaubühne di Berlino è in scena Never Forever (e lo sarà di nuovo il 16 e 18 ottobre). Per scoprire le prossime performance di Total Brutal:
http://www.totalbrutal.net/Site/total_brutal.html