Nostalgia, nostos: il viaggio di ritorno ed il dolore del distacco.
Hanno in comune lo scavo dell’etimo, un preciso senso della laicità e poco altro la trama dello straordinario ultimo film di Mario Martone, tratta dal libro postumo – acuto come un fendente, lieve come una confessione – di Ermanno Rea dallo stesso titolo. Neanche la Sanità – sfondo e personaggio senziente di entrambe le opere – ne viene fuori la stessa. Ma andiamo con ordine. Questo film non fa assolutamente rimpiangere il libro, anzi: per certi versi lo surclassa e lo sublima.
Non è facile misurarsi con Rea e Martone ha trovato, nel suo passo scrittorio, una intrigante originalità che risalta l’opera originaria ed il suo senso.
La pellicola di Martone (la cui scrittura è in realtà firmata a quattro mani dal regista ed Ippolita di Majo che squadernano Nostalgia lasciando intatta solo la figura di Felice Lasco il protagonista) riceve 10 minuti di applausi a Cannes dove, in concorso, viene accompagnata da un nutrito gruppo di abitanti della Sanità che hanno preso parte alle scene interpretando se’ stessi. Sebbene molto più interessante e matura di E’ stata la mano di Dio è restata a bocca asciutta agli ultimi David di Donatello, gli ‘oscar’ del cinema nostrano.
La storia di Felice Lasco (un Pierfrancesco Favino completamente destrutturato e rimesso al mondo come attore di nuovo) è quella di un emigrato qualsiasi che torna alla terra natia.
In filigrana si intuisce (mentre nel libro è chiara dalla prima pagina) l’ombra nel passato di questo napoletano di successo che ha voglia di liberarsi dai suoi fantasmi ma, mentre espia, stupisce se’ stesso e si innamora talmente tanto del suo quartiere lasciato poco più che quindicenne che decide di ‘restare’.
Finirà i suoi giorni (l’ordine cronologico delle azioni nel film è invertito rispetto al libro) in un sapiente altarino di ‘munnezza’ (materassi abbandonati per strada e masserizie) ucciso dalla stessa mano del suo migliore amico (o’ malomm’: Oreste Spasiano interpretato da un gigantesco Tommaso Ragno).
Rea inizia con una crocifissione, Martone inizia con un’auto-assoluzione che conduce al martirio. La scelta del soggetto è molto sapiente ed il suo svolgimento di più: il quartiere Sanità che è stato (sarà ancora) grande protagonista di un rilancio dal basso di Napoli e delle sue sorti (senza aiuto di alcuna istituzione) è descritto nel film come una qualsiasi banlieue del mondo che si riscatta attraverso la cultura ed il saper fare.
La coproduzione italo-francese ha girato l’intero film durante il Covid e sebbene sia totalmente ambientato nelle strade d’ ‘o rion’, la sua resa è internazionale: si potrebbe essere ovunque, in qualsiasi luogo. Suscitando le stesse, incontenibili, emozioni.
Il montaggio serratissimo (Jacopo Quadri) permette alla fotografia perfetta di Paolo Carnera di innestare un dialogo chiaro e sognante al tempo stesso con lo spettatore: nei primi due minuti e mezzo si assolve al rapporto di Napoli con la Sanità senza indulgere in alcuna scena oleografica e nessun dejavù (al contrario dell’ultimo film di Sorrentino che è fatto esclusivamente di cliché). Dopo, la storia si innerva in una dialettica universale: parla a/di qualsiasi ritorno, a/di qualsiasi perdita, a/di qualsiasi confessione, a/di qualsiasi espiazione. Di una qualsiasi enclave dentro una città.
La Sanità da anni – grazie ai parroci che si sono susseguiti – raduna le forze migliori (i giovani del quartiere) attorno ad attività formative e lavorative: dalla band musicale all’associazione culturale di guide turistiche, fino alla creazione di un servizio di raccolta rifiuti porta a porta per citarne solo alcune (le prime due sono narrate nel film).
Sono meno tentati dal crimine ma soprattutto portano un messaggio di speranza nelle loro famiglie: un’altra vita è possibile.
Se nel romanzo di Rea il parroco trova un alter ego in un medico del vicino ospedale di San Gennaro, il film travasa laicamente tutta la potenza dell’istituzione nella figura del solo prete del rione, che rione non è ma solo qualcosa sotto Capodimonte e prima delle mura di San Gennaro. La statura di Don Luigi Rega (interpretato da un Francesco di Leva del pari trasfigurato nelle doti attoriali) è l’unica che viene sviluppata dal regista e dalla Di Majo in chiave politica e sterza il film verso la potenza della denuncia.
Ci sono tanti temi minori, storie nelle storie: persone ed il loro portato sviluppate finemente, che compongono Nostalgia il film: ve le lasciamo scoprire senza anticiparvi nulla come sarete estasiati nel viaggio geografico esteriore che il regista vi farà compiere in questo luogo-non luogo che oggi è l’esperienza di viaggio più interessante da compiere quando si visita Napoli. Perché, a suo modo, Nostalgia è un road movie.
Don Luigi Rega, ci racconta Martone, ha vinto e con lui tutti gli abitanti dei Vergini e della Sanità. Perdendo ogni giorno e rialzandosi ha compiuto il miracolo. Il film viaggia con le foto di Mario Spada, uno dei fotografi più interessanti della corposa e validissima scena napoletana. E non è poco.