La tua storia in dieci righe
Oh, non so come cominciare….! Sono nato a Rishon LeZion, in Israele nel 1984 (è a circa 15-20 minuti da Tel Aviv) e vengo da una famiglia dove l’arte è molto radicata. Penso che il mio primo passo in questo mondo sia stato con la scuola (la Telma Yalin School of Arts, Tel Aviv) dove mi sono diplomato in arti visive. Me ne sono innamorato immediatamente e da allora tutta la mia vita vi ruota intorno. Quattro anni fa ho iniziato a studiare alla Bezalel Academy of Arts and Design (Gerusalemme) ma stavolta disegno industriale. All’inizio è stata una grande sfida, per chi come me viene dal mondo dell’arte progettare una sedia è un compito arduo.
Ma questa è stata solo la mia prima impressione. Solo ora posso dire che la mia arte sia stata sempre connessa, anche prima, con questa particolare forma di creatività che coinvolge molto di più l’esperienza di chi usa gli oggetti. Oggi posso dire di lavorare molto nel territorio di confine tra l’arte ed il design. In pratica comporta disegnare, dipingere e creare prodotti. Penso che entrambe le discipline ruotino attorno ad una storia. A parte essere un designer, invento storie. Quando racconti storie, devi pensare bene a come, ma anche cosa è interessante cosa lo è meno e a come ci comportiamo dati certi argomenti.
Dopo aver fatto quello che tutti gli Israeliani fanno (il servizio militare), ho iniziato a viaggiare e questo ha cambiato profondamente il mio essere ed il modo di pensare: Australia, Nuova Zelanda, Papua Nuova Guinea, Vietnam, Cambogia, Myanmar, Tailandia. Tornato in Israele, ho lavorato un po’ e poi sono andato in India. Una volta tornato, ho iniziato i miei studi. Lavorare è stata la più profonda ricerca che mi sono auto-commissionato.
I tuoi genitori sono artisti?
Sì. Penso di aver ereditato questa dote da mio padre. E’ quello dalle mani d’oro, viene da una famiglia dove il nonno era un artista di Francesco Giuseppe (Austria), era un ebanista ed artigiano oltre a tante altre cose; mio padre lavora nel business dell’arte e dipinge come hobby. Ha una galleria in Israele, si chiama Gvanim che in ebraico significa varietà.
Quanto lavori come designer e quanto come inventore/artista?
Mi piacerebbe dire principalmente come artista che per me significa mettere dentro tutto, ma penso anche che questa categoria professionale sia come un “grande titolo”. E dopo di questa viene il designer, il ricercatore…
E’ difficile dividere e peraltro mi è impossibile fare un calcolo in termini ore di lavoro. Mi sento in qualche maniera come uno scienziato. Noi designer impariamo molto sui materiali ma dopo dobbiamo sperimentarli. E dove vivo, è il posto migliore per farlo. Prendi ad esempio il mio progetto s sense: ho collaborato tantissimo con un importante centro di ricerca che mi ha aperto letteralmente le porte. L’innovazione è qualcosa che abbiamo nel DNA qui (e tante sono le start up che nascono nel nostro paese), ma un designer ha il compito di verificare cosa realmente ha bisogno di essere innovato, con il solo scopo di aiutare la società – dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, inclusi i problemi di disabilità etc.
Creatività commissionata e non commissionata: qual è la relazione?
Tutto è non commissionato ma in qualche modo si trasfonde nel commissionato. Prendi, per esempio, “blow dough”, il mio progetto di food design presentato alla scorsa Jerusalem Design Week; è diventato un workshop a Kiev (dove mi trovo ora). Non era commissionato, ma non è qualcosa che ha trovato la sua vocazione esclusivamente ad essere esibito in un museo: finisce per diventare una pratica, un esperimento da essere insegnato. E poi i miei lavori di design, come Boutonnière sono qualcosa di reale, che vende. Dal design di prodotto all’arte, e certo dal progetto alla produzione: oriento tutto, dal mio punto di vista, per riuscire a guadagnarmi per vivere.
Sì, lavoro anche con delle imprese. Ad esempio adesso sto progettando per LagoDesign (i pezzi saranno presentati al prossimo Fuorisalone di Milano) e ho lavorato per Keter, una delle aziende più grandi del mio paese. E ho creato la Cloud Factory per un’azienda di giocattoli, la Spin Master grazie ad un concorso di design a scuola. Mi ha permesso di realizzare un sogno che ho sempre avuto da bambino: essere tra le nuvole. Non è ancora in produzione a causa di alcuni problemi relativi alle norme di trasporto di sostanze gassose….Mentre lo risolvono, siamo già su un altro progetto molto interessante.
Che tipo di incontri fai quando lavori? Ci fai un ritratto di uno di questi?
Preferisco parlarti del mio giorno di lavoro tipo. Mi sveglio, bevo il mio caffè e guardo le notizie. La prima parte la passo al computer (mail, prototipazione 3D), poi dopo pranzo mi metto al lavoro sui materiali. Questo accade tutti i giorni, anche se non ho commissioni. Ma tuttavia la scansione può cambiare molto, potrei dover incontrare dei clienti o, al contrario portare i miei progetti ad uno step superiore. Quando posso, a mezzogiorno, vado in spiaggia e nuoto per venti minuti.
Cosa ti da la tua città (e la società israeliana) e cosa viceversa dai tu – considerando che sei molto giovane?
Prima di tutto, ho lavorato molto fuori (in Europa ed altrove) e quindi penso che per questo sia in debito con il mio paese. E fuori le persone sono sempre interessate a quello che succede qui, non solo dal punto di vista politico. Cosa mi da il mio paese e la mia città? Tantissimo, ohh!! Anche la spiaggia vicino a casa mia, vivo a cinque minuti di distanza, è il posto più bello del mondo, mi piace tanto e mi piace soprattutto l’attitudine israeliana, mi dona moltissimo. Qui è tutto molto aperto, le persone sono super carine ed amichevoli, molto accoglienti – specialmente nella mia zona, Giaffa, che è un mix di Arabi ed Ebrei, vicino al mercato delle pulci, un posto perfetto per storyteller (è dove i prodotti hanno un sacco da dirci).
Ci racconti una cosa bella che ti è capitata di recente?
Sono stato felice di essere stato a Venezia di recente, tutto è capitato molto in fretta (un museo privato aperto da poco, Vitraria, ha preso in mostra ed in vendita la sua Boutonnière dopo un lungo processo di negoziazione). Mi accade spesso: cambiamenti e buone notizie arrivano inaspettate, come il workshop qui a Kiev.
Ti preoccupi di cosa succede adesso a Kiev?
Guarda, io vengo da Israele. Quando leggi le notizie sulla nostra regione, ti verrebbe da pensare che sia il posto peggiore del mondo o che le persone qui corrano dalla mattina alla sera con le pistole in mano per strada. E’ totalmente falso! Ho giusto chiesto ai miei ospiti prima di venire se c’era un pericolo reale e loro mi hanno rassicurato, dicendo che non era poi così male. Veramente, non sono una persona che smette di viaggiare per questo tipo di problemi, se ho qualcuno che è del posto e mi dice la verità.
Ci racconti la tua passione culinaria?
Non sono un grande conoscitore di ricette. Mia madre è la migliore cuoca in circolazione!
Quello che invece mi interessa molto è la relazione che abbiamo con il cibo. Come mangiamo e cosa portiamo dentro il nostro corpo, se siamo realmente consci di cosa facciamo e che esperienza abbiamo del nutrimento. Per esempio, mi piace mangiare molto con le mani e senza posate. E se non mi sporco, so che quello che sto mangiando non è buono! Non importa quanto formale sia l’ambiente circostante, o dove stia mangiando!
Mi piacciono tutti i cibi tradizionali, da qualunque paese vengano. Anche quando sono stato in Italia ho cercato sempre piccoli ristoranti e per quanto possibili autentiche trattorie con prodotti tipici. Anche se, a Venezia, l’altro giorno sono stato male mangiando dei piccoli pesci, non ho dormito per una notte intera con il mal di stomaco. Anche questa però è un’esperienza!
Che musica e che libri sono con te ora?
Sto ascoltando ininterrottamente da due settimane l’australiano Chet Faker, mentre i libri con me ora sono collegati alla mia ricerca, non sono di narrativa. Sono libri sul cibo, in particolare metodi tradizionali di cottura….
In che modo cerchi di vivere lentamente, se ti piace farlo, nella città dove abiti?
E’ curioso. Non sono “lento”, corro costantemente da un posto all’altro. E per il fatto che il mio lavoro non è tipico, non ha che so io un’attività standard come la hanno gli avvocati, si può dire che sono sempre a lavoro. Più che un’occupazione, è proprio la mia passione: posso anche svegliarmi nel cuore della notte per un idea e mettermici a lavorare o fiondarmi al computer. Tuttavia, essere sempre al lavoro è dura e in particolare occuparsi d’innovazione lo è ancora di più. In qualche modo, però, credo di vivere “lentamente”: non nel mio carico di lavoro e neanche guardando la mia agenda, ma nel modo di pensare. E ho l’attitudine easy-going, ma forse questo non è esattamente lo stesso di essere lenti…
Un talento che hai e uno che ti manca?
Vorrei essere un musicista, adoro la musica e penso sia un’arte eccezionale. Non devi neanche avere particolari doti, è parte della nostra vita. Quello che mi piace è che un musicista trova facilmente la connessione tra la sua vita di tutti i giorni e la sua arte. Pensa: stai guidando la macchina, proprio quando stai parcheggiando c’è una fantastica canzone alla radio e resti lì fino a che finisce. Un bel momento che porta l’arte nella tua vita. E invece nelle arti visive? Per questo sono così appassionato di food design, è un modo pratico per far incontrare arte e vita.
Non penso di essere il miglior disegnatore o il migliore artista o il migliore designer: mio Dio, ci sono persone così talentuose attorno a me! Quel che ho di meglio è la pazienza.
Cosa hai imparato dalla vita sinora?
Mi piace imparare da chi mi circonda, non importa quale posizione occupino in società. Preferisco quelli che m’insegnano grazie alle loro esperienze di vita.
Una risposta a “Omer, artista e progettista”
Natalie
Molto interessante … un talento e bello 😉