‘Pronto, In Galera’
‘Salve un tavolo per 5, festeggiamo il compleanno di mia moglie stasera…’
No, non state leggendo un romanzo. E neppure siete davanti alla TV dove danno una futuristica serie TV girata in un altro paese.
Qui Bollate, Lombardia, Italia.
C’è un ristorante dove, a parte il maitre, tutti i professionisti impiegati stanno scontando una pena, ma in carcere hanno ottenuto un diploma alberghiero e lavorano nella ristorazione esattamente dove scontano questa pena.
Aperto a pranzo e a cena (ma anche in grado di organizzare banchetti esterni), In Galera viene da un maturo progetto di responsabilità sociale che affonda nel 2004 e viene integrata nel 2012 quando un istituto alberghiero della zona, il Paolo Frisi, si impegna con un intero ciclo di studi per diplomare i detenuti con cui già effettuava attività di formazione interna.
Alla vigilia dei primi diplomi, l’anno scorso, inizia un percorso ancora più ambizioso. Grazie al comodato d’uso di alcune strutture nel carcere modello d’Italia, ABC (con l’aiuto di una società di social responsability, Good Point, PwC e fondi che vengono da Fondazione Cariplo ed altre iniziative comunali) apre il primo ristorante in un carcere (non uno qualsiasi ma nel carcere più stellato d’Italia!), che si chiama appunto In Galera.
Oggi a In Galera potete mangiare, sedendovi a tavoli allegri, mise en place una tovaglietta A3 di carta spessa con impresse foto della struttura. Trovate una buona scelta di antipasti, dai 10 ai 15 euro: si va dalla semplice michetta con trippa al ‘Galante’ (galantina di pollo funghi, prosciutto crudo con pasta di tartufo) fino a salmone e branzino al fumo curati in cucina. Per continuare con primi piatti e zuppe (anche il risotto al cioccolato), secondi di pesce o di carne ed una invitante scelta di dolci – stagionali come tutto il menù ed ‘espressi’, cioè sovente preparati al tavolo dei commensali che li ordinano.
Pranzo veloce? Hanno ideato un menù che chiamano ‘quick lunch’ ma c’è anche un menu degustazione. La carta dei vini, sei pagine di scelte regionali che garantiscono almeno due opportunità per terroir, ha un’impostazione dei prezzi che gli anglosassoni non esiterebbero a definire ‘affordable’, senza trascurare una buona scelta anche per chi è, invece, più affluente ed esigente.
Potete trovare tutto online sul loro sito, dalla grafica accattivante e ovviamente bilingue.
Celiaci, vegetariani? C’è ampia scelta ma anche menu personalizzati, basta segnalarlo quando prenotate.
Non dimenticate di riservare prima di andare a mangiare a In Galera: è essenziale. Per scoprire di più, chiacchieriamo a tarda sera con Silvia Polleri, responsabile del progetto ABC la sapienza in tavola.
Mentre la chiamo per l’intervista, finisce appena di accogliere una prenotazione di clienti che riservano per la sera successiva. Stranieri, forse turisti.
La tua storia in poche righe fino a quando incontra quella della Casa di Reclusione che sembra la più impegnata alla ‘riabilitazione’ dei detenuti del panorama carcerario italiano.
Per 22 anni ho fatto l’educatrice di scuola materna. Successivamente, per una passione personale, ho aperto un piccolo catering e coccolavo la buona borghesia milanese. E quando ho chiuso il mio catering convinta di aver finito la mia ‘carriera’, la direttrice della Casa di Reclusione mi ha chiesto se volevo aprire un catering all’interno di un carcere, questo carcere. Qui a Bollate.
Quindi non aveva mai avuto esperienze ‘carcerarie’ prima di questa?
Zero, nessuna. Certo, ho sempre svolto molta attività nel sociale ma non in una casa circondariale. Era proprio un settore di cui non mi ero mai preoccupata ed occupata, ecco!
Ma ha accettato la sfida, ovviamente. E senza esitazioni.
Proprio, ha detto bene. E’ una sfida. Il primo anno, quando ho fondato la cooperativa sociale ABC, per riuscire a dormire la notte verso mezzanotte ogni volta decidevo che l’indomani avrei dato le dimissioni ed invece mi riassumevo da sola (ride, quest’intervista si svolge al telefono di notte, appunto, lei mentre lavora a In Galera e io sulla mia scrivania a molte storie in contemporanea e a molti chilometri di distanza). Questo per dare un po’ l’idea dell’entità del compito.
Questo progetto è iniziato con lei da sola, giusto?
Da sola nel senso che è una cooperativa sociale che ho aperto e di cui son stata da subito la presidente, insieme a me cinque persone interne e cinque detenuti (inizialmente).
Molti poi avranno finito la loro pena
Certo, dal 2004 ad oggi, io ho avuto circa 65/70 detenuti che hanno fatto un percorso lavorativo con me.
Quasi nessuno con esperienze relative al food od al servizio in sala?
No, no: molti di loro (soprattutto quelli che hanno iniziato il progetto) erano persone proprio legate al food. All’inizio è tutto partito da loro. La direttrice, che mi conosceva, mi ha chiesto se volevo fondare un catering con i detenuti perché era stata stimolata da una loro domanda. Avendo una lunga pena, chiedevano di poter esercitare la loro professione, in qualche maniera. Quindi la sfida è iniziata da lì, poi nel tempo vi sono persone che dobbiamo formare noi integralmente, a volte invece son persone con qualche esperienza del settore. E’ stato, potremmo dire, un crescendo progressivo.
Quanti coperti ha In Galera e quanti pasti avete servito sin dalla sua apertura? Ogni cliente è speciale, vero? Sono convinta tuttavia che avete, sin qui, tracciato un profilo del vostro cliente ‘tipo’. Ci sono anche famiglie di detenuti a cui è riservato magari uno sconto?
52 coperti. A volte facciamo 52 coperti alla sera e frequentemente a mezzogiorno arriviamo a 30/35 coperti. Funzioniamo molto bene anche al brunch.
Guardi, le alchimie da noi e con noi sono molteplici. Forse quel che fa nascere l’idea di prenotare da noi all’inizio è la curiosità, ma la curiosità viene immediatamente confermata e consolidata con un apprezzamento delle portate, delle modalità di ricevimento (di cui si parla molto): è ciò che ci viene riconosciuto, ecco.
Non abbiamo ancora un cliente tipo, ma mi vien da dirle questo. I nostri clienti arrivano da tutto il mondo e questo mi ha fatto riflettere sul fatto che la società ha paura di ciò che non vede e che non conosce. Questo è valido non solo con riferimento al carcere. Parlo di qualsiasi cosa. E’ un istinto di difesa dell’essere umano. Il fatto che noi abbiamo persone che prenotano da tutto il mondo, trasversali anche per cultura e per età, mi ha fatto pensare che c’era davvero bisogno di conoscere un mondo che altrimenti non c’era possibilità di conoscere.
Non facciamo sconti, in generale. Il ristorante nasce per la società, l’idea è che la società entri e riceva servizi dal carcere, mentre di solito accade solo il contrario (è la società a dover dare servizi al carcere). E’ consentito alle famiglie di detenuti di mangiare al ristorante quando escono dai colloqui ma non è consentito quando i loro cari sono in servizio.
La legge prevede un determinato numero di ore al mese di colloqui. Se le persone venissero qui con i loro parenti, stravolgerebbero la legge.
Siamo in particolare curiosi del vostro o dei vostri cuochi…Chi sono e cosa amano preparare più di tutto?
Abbiamo fatto un salto di qualità con il mese di settembre. Tutta la brigata di cucina da allora è fatta da cuochi interni. Abbiamo uno chef di buonissimo profilo che aveva già la sua formazione prima di entrare in carcere, quindi per noi è proprio un orgoglio pensare che questo progetto vada avanti con chef in-house. E’ troppo importante, inoltre, per queste persone non avere un buco lavorativo nella propria vita, purché in carcere.
Direi che la nostra è davvero una cucina molto curata dall’antipasto al dolce: prettamente mediterranea ma molto rivisitata. Se le dico che tra gli antipasti abbiamo una tale varietà per non parlare poi del risotto al cioccolato con spinaci e cotechino, che è stupendo! Ci sono degli abbinamenti apparentemente un po’ osè ma in realtà molto calibrati e studiati che stupiscono molto.
Ultima domanda su ABC prima di passare a scoprire qualcosa di te come persona: ci spieghi meglio come è nato il rapporto con la Good Point della famiglia Alessi e come vi hanno assistito nella costruzione della ‘appetibilità’ della vostra responsabilità sociale?
C’è stato un incontro con la Good Point proprio perché negli anni c’eravamo già affermati nel settore del catering. Ci avevano individuati per segnalarci alla PWC come elemento un po’ dirompente nel sociale. Eravamo riconosciuti da molti perché volevamo fare le cose per bene, anche se operavamo nel sociale. Quindi Good Point ci ha proposto di provare ad ingaggiare questa sfida: aprire un ristorante che desse lavoro ai reclusi.
Avevamo cercato per un anno un ristorante esterno al carcere a Milano. O era costosissimo (in caso di immobili in centro), o era troppo borderline (in caso di quartieri a rischio). E io ho sempre detto a tutti ‘i miei ragazzi solo nei quartieri alti!’ (ride fragorosamente, ed anche io con lei!).
Poi, un giorno, con l’avvento di Expo praticamente a 50 metri da noi, l’idea di fare il salto e di chiedere alla direzione se ci dava il permesso di aprire un ristorante all’interno del carcere. Ad oggi, con il senno di poi, la scelta per ora è stata felice. Nella breve presentazione che potete leggere sotto il capitolo ‘Benvenuti’ del nostro sito, io ho scritto ‘almeno noi ci proviamo’. Abbiamo prima di tutto l’umiltà di dire che stiamo facendo qualcosa di nuovo, di faticoso: ci prendiamo le gioie, gli onori ma anche tutti gli oneri di questo impegno.
E siete in un carcere modello per fare qualcosa di così avveniristico…
Certo, quello sicuramente: l’abbiamo potuto fare qui a Bollate perché così è Bollate, ma non saremmo riusciti a farlo probabilmente in nessun altro carcere. Anche se io ho due esperienze molto carine, molto!, da riferirvi.
Una è in un carcere della Colombia. Abbiamo da poco ricevuto la visita di due volontarie che operano nel carcere di Cartagena e che apriranno a dicembre il loro ristorante all’interno della loro prigione.
Poi c’è il carcere di Marassi (Genova, Liguria) che sta provando ad aprire (sono andata a fare un sopralluogo da poco) uno ‘street food’. E’ un’idea che mi è venuta perché il carcere è praticamente attaccato allo stadio ed, essendo anche io di origini genovesi, so che in fin dei conti già nell’Ottocento Genova amava questa forma di ristorazione e si aveva quello che oggi chiamiamo ‘street food’. Speriamo ce la facciano anche loro!
Quali sono il cibo e la bevanda che ami –…magari indicandomi anche qualcosa della vostra cucina?
Anche se non prediligo i dolci, devo dire che la variazione al rum è una libidine. Si tratta di un tortino di cioccolato a cuore caldo, in cui devi intingere un cannolo, o meglio un sigaro fatto di caramello ripieno di una crema al rum, accompagnato da un assaggio di rum caldo da bere. E lo chef raccomanda sempre di prendere il sigaro con le mani, dice ‘il cibo va vissuto così sporcandosi’. Ha ragione, è bellissimo.
Un’altra cosa splendida è il risotto di cui ti parlavo prima. Inimmaginabile se non lo provi.
Un talento che hai, uno che ti manca
Mi definisco ‘vecchia, bastarda e di galera’. Questa è la mia vera forza: 14 anni spesi qui, in galera. Mi definisco bastarda perché io ho un rispetto rigorosissimo delle regole e chiedo e pretendo molto.
Vengo scherzosamente soprannominata, soprattutto dai poliziotti, il pitbull perché sono molto rigorosa.
Sostengo che dobbiamo dare alle persone che lavorano con noi sia diritti sia doveri perché ognuno di noi nella propria vita ha bisogno di avere l’orgoglio d’appartenere a qualcosa.
Per esempio, quello di appartenere a una buona famiglia che abbiamo costruito, quello di appartenere ad un lavoro stimato e in cui gli altri credono. Ecco, l’orgoglio d’appartenenza.
Tutto ciò può avvenire solo di fronte al lavoro vero, ad un sacrificio per esso. Tutti i nostri detenuti come dicevo prima hanno una busta paga ed un contratto di assunzione ed è motivo di orgoglio per loro avere anche del reddito da inviare alla famiglia. Ciò che è diffuso nella cultura comune è che il carcerato è un parassita – certo obbligato ad esserlo, ma comunque un parassita. Il carcerato che lavora con ABC diventa un contribuente, paga le stesse tasse di uno che è libero e vive fuori.
Cosa hai imparato, sin qui, dalla vita?
Tanto, molto. Perché lavorando in carcere i detenuti ti insegnano a leggere la vita in maniera differente, quando sei fuori la vita la vedi di fronte.
Quando sei fuori hai come un’immagine piatta, come uno schermo. Qui non puoi vederla così. E’ piena di profondità, spigolature ed altezze differenti. Questo l’ho imparato proprio da queste persone. Leggere la vita diversamente.
Io però sostengo un’altra cosa. Deve essere molto chiaro che non deve esserci buonismo, chi è qui è perché ha trasgredito le regole e deve essere correttamente fermato. Ma nessuno mi da il diritto di strappare la vita alle persone. La dignità di ognuno di loro innanzitutto.
Altrimenti non sarebbe formativo questo intervallo di privazione della libertà
Ha un senso profondo soltanto se noi lo ‘proiettiamo’ oltre. Lo dico sempre ai miei ragazzi, quando qualcuno si lamenta dei percorsi che devono fare, frequentemente faticosi. Paragonavano i percorsi che fanno con magistrati, educatori, formatori a quello che fanno con me.
‘Lei signora è diversa, noi parliamo diversamente’.
‘Io però vi prendo come nuovi, senza quei faldoni che vi portate dietro quando arrivate al giudizio definitivo, io guardo con voi avanti. Indietro solo appena appena, piegando la testa sulla spalla per vedere cosa si è sbagliato e non rifarlo più’
Per conoscere meglio i menu, per prenotare:
Quest’intervista, a cura di Diana Marrone, è stata commissionata dalla Fondazione Easy Care per l’Osservatorio dei ‘Social Cohesion Days’, sul cui blog Slow Words cura, in lingua italiana, una rubrica mensile fino a maggio 2017 (quest’intervista è apparsa a novembre 2016).
Una risposta a “Ristorante In Galera, Bollate”
Diana
Riceviamo e volentieri annotiamo qui il commento di una lettrice, l’On,. Serena Pellegrino: Bravissimi!
Grazie per avermi informato di questa stupenda iniziativa.