Xavier Le Roy, danzatore e coreografo

 

Un vecchio magazzino dell’Arsenale di Venezia ha ospitato fio alla scorsa settimana due performance completamente differenti l’una dall’altra – entrambe agite da 18 danzatori che hanno fatto domanda di partecipazione per una scuola estiva alla Biennale Danza di Venezia.

Entrambe le pièce partono dalla parola agita solo in forma orale, non mediata ma richiesta. La prima è ultra bianca e ultra luminosa, ultra semplice e ultra orizzontale: i performer in qualche modo interagiscono tra loro disegnando con i corpi totalmente nudi delle posizioni aeree e sul pavimento, camminando e sedendo come fossero dei quadrupedi. Durante la performance, che dura tre ore e che permette ai visitatori di andare e tornare a piacimento, si avvicinano a ciascuno a quattro zampe facendo delle domande ed intrattenendo una conversazione (a me hanno chiesto cosa significasse innamorarsi). La seconda pièce è totalmente immersa nel buio, con una disposizione appunto militare tra pubblico e performer. Dura solo 20 minuti (è parte di una pièce più lunga) ed è un dialogo improvvisato, cieco, su qualsiasi argomento. La luce si accende solo quando è necessario – per dire che lo spettacolo è finito.

 

Il carosello di membra di Title in Process (2015, con Scarlet Yu) e la linearità marziale di Excerpts of Low Pieces (2009-2011), in altri termini l’ultra-contemporaneo e l’ultra barocco, sono, si stenta a pensarlo, frutto di una stessa mente, che nel 1991 sterza dalla biologia alla danza, parliamo di Xavier Le Roy.

 

 

La sua storia con tre specifici accenni: l’infanzia, quando decide di virare dagli studi scientifici alla danza e l’età dell’oggi – quando e come usa la danza per parlare a mondi che vengono da culture differenti

Ah, potrei stare due mesi a rispondere! Sono stato allevato in Francia, nato nella periferia parigina e vissuto a sud della Francia da quando avevo due anni. Mio padre era un tecnico informatico, mia madre un’insegnante. Il mio paese era di 2500 abitanti; la mia infanzia, dato che sono nato negli anni ’60, era sistemata nella fase espansiva dell’Europa e totalmente calata nella modernità. Davvero un bel periodo, immagino, fino alla prima crisi petrolifera.

Come e perché ho cambiato lavoro dalla scienza alla danza (ha studiato biologia molecolare)? Quando ho iniziato il mio PHD, ho iniziato anche la mia prima esperienza professionale in un laboratorio e ho quindi incontrato la realtà della ricerca in quel settore – non esattamente come me l’ero immaginata (avevo una certa idea romantica della professione). Mi veniva richiesto di produrre scienza e non di investigarla o di esperirla. Il periodo del mio PHD coincideva anche con la fine di una storia d’amore durata tre anni. E’ stato un momento drammatico, molto doloroso. E’ lì che ho cominciato con le lezioni di danza. C’è anche un’altra ragione: vivevo a Montpellier dove si svolge un festival di danza molto prestigioso e dove quindi ho potuto iniziare a crescere nella coreografia. Prima della danza ho sempre fatto molto sport, la mia infanzia era tutta attorno al calcio e al basket, le principali – ed uniche! – attività in cui ero interessato. La frustrazione che provavo in generale per il mondo ed in particolare per la mia situazione amorosa mi spinsero a praticare sempre di più la danza e sempre di meno le mie attività scientifiche. Certo, finii il PHD perché dovevo, ma poi lasciai completamente la biologia per dedicarmi alla coreografia. Era il 1991, sin da allora faccio questo.

 

Le scene che crea parlano a tutti, non intendo soltanto a un giapponese quanto ad un europeo toccando le medesime corde in entrambi. Parlano sia a chi viene da una cultura alta sia per l’opposto. Come trova la strada, il giusto click, la via? Dove sta il magico?

E’ la mia principale preoccupazione. Voglio proprio indirizzare ogni mia performance in questo modo. Ho iniziato danza tardi e mi sono subito trovato in un mondo per iniziati dove non comprendevo tutti i codici. Ho cercato di imparare e ho incontrato un sacco di difficoltà prima di esserne capace e mi sono anche sentito rifiutato. L’idea di iniziare da un punto dove non ne so più di te e tu non ne sai più di me ma sai cose che io non so ed io altrettanto. Questa è la coesione, questo è il modo in cui possiamo condividere e trovare il modo in cui si può accedere al mondo senza avere referenze imperative. Ecco perché il vocabolario che uso contiene raramente movimenti di danza come base, piuttosto contiene sia movimenti molto singolari sia quelli che ciascuno può compiere…

 

La sua idea di ‘danza’ è legata alla vita nel modo più sorprendente ed è il primo coreografo contemporaneo che vuole – e ci riesce – in ogni contesto trasformare il pubblico in soggetti attivi, anche forse perché cerca il ferale in ognuno di noi…

Forse lo pensa perché ha visto gli ultimi due spettacoli a Venezia. Uso molto l’idea di un filosofo francese, Jack Rancière, che afferma qualcosa che mi sta a cuore: “l’uguaglianza non dovrebbe essere un obiettivo ma il punto di partenza”. E’ questo che ho deciso di applicare nei miei spettacoli.

 

La sua relazione con la parola scritta e con quella parlata: le tratta allo stesso modo o ha una fonte che privilegia tra le due?

Uso un sacco di situazioni di conversazione in molti lavori e possono prendere strade differenti. C’è una pièce chiamata Product of Circumstances che è in forma di lezione, è letteralmente un testo che ho scritto e che poi leggo. In Title in Process (2015), i danzatori iniziano una conversazione con i visitatori e hanno tre domande a disposizione, possono usarle a piacimento e non esiste testo. Queste conversazioni non sono sceneggiate. Mi piace avere a disposizione quante più possibilità, poi uso le parole scritte o parlate a seconda di quel che occorre per cosa voglio realizzare.

 

Cosa si aspettano da un coreografo-docente le giovani generazioni e cosa si aspetta lei da loro?

Nell’ultima esperienza a Venezia, mi hanno consentito di realizzare un esperimento: mi hanno donato curiosità, desiderio di fare e condividere. E’ stato grande. Molto positive.

 

Il traguardo più grande raggiunto sinora come coreografo e danzatore e quello, invece, più personale? 

Bene, penso che il traguardo raggiunto sia stato quello di cambiare professione. Essere stato in grado di fare davvero quello che volevo, volerlo fare, amarlo è una grande fortuna. Un privilegio. E di sicuro questo traguardo vale tanto per il coreografo quanto per l’uomo.

 

Cosa le dà Parigi e, viceversa, cosa lei dà alla città?

Ho la fortuna di avere una bella residenza che mi ha aiutato molto, da tre anni, al Thèâtre de la Cité Internationale Universitaire. E’ quasi alla fine. In genere, devo dire che non amo Parigi.

 

 

Una passione culinaria del momento?

Adoro, sempre, una normalissima pizza! Cosa mi piace mangiare al momento? Uhm, bella domanda, non so (ride)…non mi fisso molto su una cosa, ma in generale amo molto la cucina asiatica – la scorsa volta che ho mangiato è stata fantastica.

 

Il posto dove è riuscito a vivere “lentamente”, se è accaduto, sinora? 

Mi piacerebbe imparare un po’ di più cosa vuol dire vita lenta. Significa dire di no alle proposte. E’ difficile perché è una sorta di ciclo, molta pressione in certi momenti e in certo modo; se inizi a dire no, magari la questione non si pone proprio più e non ricevi più proposte.

E’ buffo, rispetto ai cicli: a volte ci sono settimane in cui direi no a tantissime cose – progetti, scrivere un saggio, un testo, un’intervista – ma quando questa fase accade è già troppo tardi per rendersene conto perché si è già immersi in un flusso di cose da fare…

Vivo lentamente quando presento coreografie in forma di mostra, che consentono di stare in un posto per una durata estesa e quindi avere anche un ritmo lento.

 

La musica e le letture con lei adesso?

La musica nella mia vita cambia molto. Adesso ascolto le Sonate di Bach e le partiture trasposte per liuto. Leggo un libro sul paesaggio di François Jullien.

 

Un talento che ha uno che le manca?

Non penso di avere talenti. Mi piacerebbe quello del ritmo, e suonare musica.

  

 

Cosa ha imparato sin qui dalla vita?

La vita è grande.

 

 

Copertina: Xavier Le Roy, 2011 (foto: Emma Picq)

Il calendario delle prossime performance:

http://www.xavierleroy.com/page.php?id=9207d8721c7f1d3c866bc1548732990f405bc66a&lg=en

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