Due volte al giorno, verso le sei del mattino e le cinque della sera, tazza ripetuta di Tè verde della Cina arriva con la sua infallibile virtù unitiva, confirmativa, risuscitativa, a disincagliarmi e a preservarmi da ogni specie d’inerzia, d’inebetimento, di abbattimento.
Messaggi clandestini, che trovano orecchio, avvolti in carta di riso, della Luce.
Nono sono un Orientale. I miei gesti rituali non vengono dai Maestri; somigliano piuttosto ad un’abitudine carceraria, continuata negli anni.
In piedi, sempre, vicino ad una finestra con la tendina scostata….Ma di Oriente orientante mi resta la fiducia che nell’uscire in giusta misura da se stessi, e abitualmente, non c’è nulla di pericoloso, e che vedere, sentire e incontrare spiriti non è inquietante.
Lo Spirito del Tè comincia appena disceso ad operare. Leggere pressioni interne, agopunture invisibili, scatti tempestivi del sensorio, sampàn di lumettini, coloriture improvvise di silenzi, un susseguirsi puntuale di eccitamenti che vanno dall’occhio interno (che forse è un orecchio o una mano) lungo le disirrigidite vertebre, al coccige resurrecturo. Allora nel buio molte finestrine tornano vive, e le parole faticano meno a ritrovare il loro principio negli spazi lontani. Pace del massaggio, radice del suono, bontà dello strofinamento occulto. Guardare da una pausa di connessione quel che è sconnesso e lacerato, è un momento senza morte. Fare arretrare di appena un poco il margine del finito, per molte ore rischiara.
Nel combattimento per contrastare mentalmente quel che nel tempo è verificabile come aggressione materialmente incontrastata della tenebra, da làmine liberatrici che il Tè aiuta a ritrovare e a decifrare, imparo a non aborrire in eccesso le tenebre, per non distruggere le poche possibilità di penetrarne il segreto.
Senza curiosità disperate in continuo movimento, la disperazione non avrebbe limiti.
Il soffio del Tè s’infonde negli angoli morti, non si sgomenta d’interrogare statue imbracate. Tra le crepe dell’arido introduce qualche sua goccia, allo scolorito ridà figura. Grattando le buche abbandonate ne fa uscire qualche suono di ribàb incantato. I pensieri non miei diventano miei con molta facilità; quelli miei chiunque se vuole può farli proprii, qualunque sia il suo eccitante, senza bisogno di nome; il pensiero non pronuncia né Tuo né Mio.
L’uomo beve il Tè perché lo angoscia l’uomo.
Il Tè beve l’uomo, l’erba più amara.
Guido Ceronetti (1927-2018), Pensieri del Tè (prefazione), Adelphi, Milano, prima edizione 1987