A detta del mio medico, più mi dirigevo verso la guarigione e più manifestavo la mia insofferenza senza filtri. Secondo lui, erano stati proprio il tentativo di adeguarmi agli altri e la scarsa consapevolezza dei miei stati d’animo a farmi ammalare. Una volta appreso il trucco, una volta che avessi imparato a dire di no, non sarei più riuscita a smettere.
Sin dall’insorgenza dei primi sintomi, ho attribuito una certa responsabilità alla nuova famiglia di cui ero entrata a far parte. Sia durante l’adolescenza che negli anni dell’università avevo infatti attraversato molti momenti difficili, ricordavo chiaramente di periodi in cui non avevo voglia di alzarmi né di studiare, eppure ero sempre riuscita a rimettere insieme i pezzi. Credo che il non subire ingerenze e pressioni mi permettesse ogni volta di ritrovare l’equilibrio necessario per andare avanti. C’erano senz’altro delle cause organiche, gli ormoni e gli scompensi chimici, ma non riuscivo a togliermi dalla testa che se non mi fossi sposata, se non avessi avuto figli, avrei continuato a barcamenarmi fra alti e bassi per tutta la vita, senza mai crollare del tutto. Se sul lavoro avessi ascoltato più la mia stanchezza della mia ambizione, e molti altri se. Ero senz’altro portatrice di un cocktail genetico che, con ogni probabilità, non ha aiuta- to. Ma non hanno aiutato neppure gli eventi. Mi domando quando la smetterò di tormentarmi.
Nel salone dei miei suoceri c’erano due vasi di Sèvres, identici, posti ai lati di un mobile stile impero. Quando sedevamo sul divano per prendere il caffè dopo uno dei soliti, interminabili pranzi, non riuscivo a fare a meno di ammirarli. Non erano tanto il colore pastello, i profili dorati lungo le linee sinuose del corpo principale e del coperchio a piacermi, o la manifattura nota per essere una delle più pregiate a livello europeo, quanto la prospettiva che, un domani, sarebbero potuti diventare due urne in grado di contenere le rispettive ceneri dei miei suoceri. Mi sentivo braccata. I loro continui inviti, la domenica e i compleanni e gli onomastici e il giorno di Pasqua e di Natale, mi esasperavano. C’era sempre qualcosa da festeggiare. E io non capivo cosa. Arrivai a contare che, essendo la famiglia d’origine com- posta da cinque membri, già solo i cinque compleanni più i cinque onomastici erano dieci occasioni di festeggiamento, e se a questi si aggiungevano le feste comandate e qual- che altra ricorrenza c’era almeno un pranzo per ogni mese dell’anno. Davvero troppo per me. Quando cominciavo a non stare bene, mi sentivo terribilmente in colpa per questi pensieri, mi sentivo cattiva e ingrata. Adesso, invece, semplicemente accetto di averli.
Come ho già scritto, molte responsabilità sono state attribuite a mia madre, al suo essere troppo accomodante nei miei confronti. La madre-zerbino mi aveva viziata, assecondandomi in tutto, e la libertà e l’assenza di regole di cui avevo beneficiato a un certo punto mi si erano ritorte contro. Oppure quella povera disgraziata, che come tutti ha commesso e commette errori, sin dall’inizio ha compreso la mia natura difficile e ha quindi cercato di non remarmi contro, di non crearmi più problemi di quanti non ne avessi in partenza. I genitori di Riccardo, famiglia vecchio stampo, diametralmente opposta a quella da cui provenivo in termini di abitudini e valori, si aspettavano che io mi adattassi al loro modo di vivere, erano ciechi e sordi, non c’era spazio per il mio malessere, e questo ha contribuito al crollo.
Ma la cosa peggiore è non poterne parlare.
Non solo ti è successa una cosa terribile, ma devi anche nasconderla come qualcosa di vergognoso. Un po’ come succede col cancro, ma molto peggio. Ci sono persone che hanno difficoltà ad ammettere anche quello, credo per la ragione che la malattia è sempre una condizione di debolezza: ci mostra scoperti e inadempienti agli occhi del mondo. Conosco persone che hanno negato la propria malattia anche di fronte all’evidenza, rendendosi ridicole, magari, o sprecando energie preziose. Si sono chiuse in casa durante la chemio e hanno aspettato che i capelli ricrescessero per poi portare avanti la commedia. Essere malati è sempre difficile. La compassione negli occhi di chi ti guarda, l’impossibilità di rispondere «bene» quando ti chiedono come stai. Se col cancro il tabù comincia a venire infranto – non è più un brutto male ma riconquista il proprio nome, i vip che ne sono colpiti lo ammettono pubblicamente e scrivono libri in cui parlano della propria esperienza – col disagio mentale è ancora poco frequente. Qualcuno racconta di periodi bui e momenti di depressione in seguito a una perdita, ma si tratta quasi sempre di episodi isolati, come una fase di cui si possano riconoscere un inizio e una fine. Ebbene, non funziona così. La mia esperienza m’insegna che la malattia mentale è fortemente invalidante. Si manifesta compromettendo la tua vita lavorativa e le tue relazioni sociali, distrugge l’immagine che avevi di te stesso. Ti cambia.
Molto più dei danni fisici, e più del senso di colpa che ha comportato, credo che la principale conseguenza del mio gesto sia quella di aver distrutto la mia affidabilità. O almeno lo credevo. Ho dovuto lottare per anni col mio senso di colpa, e non è mai una vittoria definitiva. I giudici più severi siamo noi stessi, a volte. Sebbene io non sia mai stata ricoverata in un reparto psichiatrico, durante la mia degenza in ospedale e in clinica venivo costantemente monitorata da psichiatri e psicoterapeuti che, accanto alla ripresa fisica, erano lì per darmi supporto. Anche una volta fuori, col mio terapeuta abbiamo lavorato sulla sensazione di stigma che non mi abbandonava e che ero io stessa a infliggermi. Mi sentivo in difetto, ed ero certa che anche gli altri mi percepissero così. Le volte in cui qualche amichetta di Greta si trovava a casa nostra per il pomeriggio o la notte in occasione di un pigiama party, non potevo fare a meno di chiedermi se i genitori, e in particolare la madre, me l’avrebbero lasciata comunque sapendo quanto avevo fatto. Poco tempo dopo aver pubblicato il mio primo romanzo, in cui parlavo di disturbi psichici sebbene non me li attribuissi in maniera esplicita, invitammo alcuni amici a cena. Era gente molto brava a nascondere i problemi e a negarne l’esistenza, o l’insieme delle due cose. Una delle invitate disse davanti a tutti che non l’avrebbe stupita se io, da un giorno all’altro, avessi preso e mollato tutto, un po’ come i mariti che «escono per comprare le sigarette» e poi spariscono nel nulla. Era una battuta, eppure mi ferì.
Nel suo libro Città sola, Olivia Laing affronta, fra le altre cose, il concetto di stigma e le sue conseguenze sulle persone. Per farlo trae spunto da un altro testo: Stigma. L’identità negata di Erving Goffman. Il termine, di origine greca, sta a indicare un sistema di «segni fisici associati agli aspetti insoliti e criticabili della condizione morale della persona». Si tratta di un marchio a fuoco di cui è difficile liberarsi e che renderebbe chi ne è portatore una persona «contaminata», «difettosa». Quello della stigmatizzazione e dei suoi (devastanti) effetti è un discorso che Olivia Laing porta avanti traendo spunto dal modo in cui erano percepiti e segregati i malati di AIDS nella New York dei primi anni Novanta. In particola- re, scrive: «Come se non bastasse la tragedia di ammalarsi, […] di sopportare il dolore e l’invalidità, senza dover anche diventare letteralmente un intoccabile». Un paradosso che sembrava riguardare anche me: barricata dietro un muro di silenzio nel momento in cui ero più vulnerabile.
«Ma tacere sulle cose che ci sono accadute non è un po’ come tradire se stessi, o quantomeno tradire quella parte di sé che le ha sperimentate?» chiede Rachel Cusk in Resoconto. Mi ci è voluto un po’ di tempo, per capire che in effetti è così. E che bisogna scegliere, se mettere a tacere il tutto, ingoiarlo sperando che non riemerga più, che non ti scoprano, oppure fartene portavoce.
Dovremmo cominciare a fare coming out, senza curarci troppo delle reazioni altrui. Non ne potevo più di nascondermi, di temere di urtare la suscettibilità del mio interlocutore ogniqualvolta si affrontavano discorsi legati al disturbo che tanto condiziona il mio modo di vivere.
Quando l’idea di questo libro cominciò a concretizzarsi, un’amica che lavora nell’editoria mi consigliò caldamente di preservarmi, di non darmi in pasto al pubblico e di giocare sull’equivoco, magari, salvaguardando così la mia immagine e la mia privacy. Me lo ripeté più e più volte, roteando gli occhi dietro la spessa montatura dei suoi occhiali. E in quel momento ho capito. Mentre cercavo di spiegarle il motivo per cui era così importante per me non nascondere quanto mi era successo esponendomi in prima persona, compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride, lo stesso sentimento di appartenenza e rivendicazione che fa scendere in piazza la comunità LGBT per dire finalmente, dopo secoli di vergogna e silenzio: IO SONO COSÍ. Purtroppo non esistono manifestazioni di questo tipo per chi ha disturbi psichici, i pazienti psichiatrici difficilmente solidarizzano gli uni con gli altri: quando si incontrano in sala d’aspetto per discrezione abbassano entrambi lo sguardo.
Così, invece di saltare con loro su un carro a urlare NON CHIEDERÒ SCUSA!, ho scritto questo libro.
Naturalmente temo l’impatto che tutto questo potrà avere sulla mia vita. Se c’è una cosa che non vorrei, è che fosse Greta a farne le spese. Se c’è una cosa che mi angoscia, è che qualcuno possa dirle, un giorno, con cattive- ria, con superficialità: Tua madre è pazza. Ma qualcosa mi fa pensare che tentare di nasconderlo, a tutti e in particolar modo a lei, possa aumentare le possibilità che questo accada.
Non posso fare a meno di chiedermi cosa ne sarebbe stato di me se fossi nata un secolo prima. Probabilmente mi avrebbero internata da qualche parte e avrebbero buttato via la chiave, non lo so. Non posso fare a meno di chiedermi molte cose. Ad esempio se una madre pazza, una madre svitata, sia preferibile al non avere nessuna madre. Qui i miei studi mi vengono in aiuto, con quel simpaticone di Donald Winnicott, lo psicoanalista inglese cui si deve la definizione di «madre sufficientemente buona» anche se imperfetta. Una madre che, pur avendo «molte buone ragioni per detestare il figlio», resta in grado di rispondere ai suoi bisogni. Mi consolo così.
Quando manifestavo l’intenzione di scrivere quello che diventerà questo libro a persone vicine o addetti ai lavori, per prima cosa mi chiedevano se fossi certa di quello che facevo, e se non preferissi usare uno pseudonimo. Le ragioni che mi hanno spinta a espormi, a uscire allo scoperto, mettendo in piazza un fatto privato e le sue conseguenze, sono diverse. Come detto all’inizio, ho sentito una sorta di «do- vere» nei confronti di quanti hanno dovuto misurarsi con un’esperienza analoga, perché la mia testimonianza avrebbe potuto aiutarli. Ma prima ancora di questo, la mia scelta è legata a una convinzione che lo scrittore americano Denis Johnson ha espresso molto bene in un’intervista rilasciata alcuni anni prima di morire:
[All’epoca] pensavo fosse importante nascondere che non ci sto con la testa. E poi sono cresciuto e cinque anni dopo ho pensato: che differenza fa? Le persone che incontro lo capiscono dopo pochi secondi. Non ci si può nascondere. Nessuno può nascondersi per sempre. Alla fine saremo sempre smascherati.
Così come non volevo restare un’estranea per le persone più vicine, l’opinione degli altri, degli estranei, ha acquistato sempre meno importanza ai miei occhi. Non ho voluto fare della mia vita una farsa. E me ne assumo la responsabilità. Quando quest’ultima mi sembrava troppo pesante, dicevo a me stessa che in ogni caso la verità, prima o poi, sarebbe venuta a galla.
E allora, tanto valeva che a raccontarla fossi io.
Guardare le cose da lontano, rivederle, attribuire loro un valore. Nel tirarle fuori è come se le avessi allontanate da me. Ma non saranno mai lontane abbastanza. Per scrivere questo libro mi sono dovuta sottoporre a dei test e a un’intervista semistrutturata, necessari a formulare la diagnosi. Durante uno dei colloqui propedeutici alla stesura, ho dovuto parlare a lungo di quanto era successo, come pure della mia paura che possa accadere di nuovo, una probabilità con la quale sono costretta a convivere. Finché le cure funzionano, e la mia testa risponde, è facile porsi buoni propositi. Purtroppo, però, quando si sta male, male come sono stata io, non c’è ragionamento o prevenzione che tenga. Mi hanno chiesto che cosa farei se stessi male di nuovo. E la verità è che io non lo so, non posso saperlo. Spero che le persone a me vicine non si porranno scrupoli a ricoverarmi, questa volta. D’altronde, quando i nostri organi vitali si ammalano gravemente, o smettono di funzionare come dovrebbero, corriamo all’ospedale, e non vorrei che l’antipsichiatria ci abbia tratti in inganno fino a questo punto. Abolire i manicomi (luoghi di clausura, più che di cura) e restituire i malati psichici alla società è un conto, privare questi ultimi delle cure di cui necessitano in nome della loro libertà, è un altro. Credo che i miei familiari abbiano cercato in tutti i modi di evitare il ricovero psichiatrico – che io ero la prima a invocare – per non consegnarmi a una realtà di cui avevano paura, per non etichettarmi, illudendosi che evitare il ricovero potesse trarmi in salvo dalla malattia psichiatrica stessa, di cui invece già soffrivo e che stava per costarmi la vita. Le cause precise non le conosceremo mai, né voi né io. Ma sono abbastanza sicura che non vadano demonizzati né i trattamenti farmacologici, in alcuni casi imprescindibili, né i reparti psichiatrici, con tutte le loro carenze.
Scrivere è un mestiere solitario. Non che questo mi dispiaccia, ma in alcune giornate preferisco non restare in casa a lavorare. La biblioteca più vicina, a pochi metri da dove abito, è quella dell’Istituto di cultura francese Grenoble. Si trova in un bellissimo palazzo di stile neorinascimentale, con grossi blocchi di tufo a vista e ampie finestre ad arco. A firmarne il progetto fu nel 1884 l’architetto di origini inglesi Lamont Young, un uomo singolare, all’epoca considerato eccentrico proprio per il suo gusto che si avvicinava al gotico e al medievale. Conoscevo solo il suo nome per via del più appariscente Castello Aselmeyer, dove un tempo abitava la nonna di Riccardo, e durante uno dei miei pomeriggi in biblioteca andai a cercare più notizie su di lui. Lamont Young era un visionario e, come spesso accade, un incompreso. Già all’inizio del secolo scorso aveva presentato un progetto per la realizzazione di una linea metropolitana a Napoli – sessant’anni prima che questa venisse realizzata – nonché di un suggestivo «rione Venezia» che avrebbe dovuto collegare attraverso canali e ponti il borgo di Santa Lucia con la zona di Bagnoli. Tutto questo non venne mai realizzato, e le sue uniche idee a vedere la luce furono alcuni progetti di palazzi e residenze signorili rese possibili da committenze private. Amareggiato, prima si ritirò a vivere sull’isolotto della Gaiola a Posillipo, in seguito sul monte Echia a Pizzofalcone, dove costruì una sinistra villa intitolata a sua moglie Ebe. Proprio qui, nel 1929 Lamont Young morì sparandosi un colpo di pi- stola alla tempia, e ancora oggi si racconta che il suo spirito aleggi sulla splendida terrazza che dà sul mare, mentre la villa neogotica, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, un incendio e la cessione degli eredi dell’architetto al Comune di Napoli, è in stato di abbandono.
Dico a me stessa che dovrò smetterla, prima o poi, di circondarmi di storie di suicidi o aspiranti tali, ma è come se siano queste a venirmi a cercare. Gli eventi dimostrano che un modo per andare avanti in fin dei conti l’ho trovato, anche se non saprei dire con esattezza quale sia. Mentre ero ricoverata, un’amica di famiglia mi inviò una lettera in cui ripeteva di non scoraggiarmi. Credo sia stato quello che ho fatto. Come scrivevo in uno dei miei diari di ragazza: «Bisogna continuare con le cose che continuano, perché le cose continuano insieme a noi che continuiamo».
Fuani Marino (Italy, 1980-)
extract from page 140 to 147 from Svegliami a mezzanotte (2019, Frontiere, pp. 168 € 17, 00ISBN 9788806242619)